Informazioni
Gruppo: Obsidian Tongue
Titolo: A Nest Of Ravens In The Throat Of Time
Anno: 2013
Provenienza: U.S.A.
Etichetta: Hypnotic Dirge Records / Dissociation Records
Contatti: facebook.com/obsidiantongueband
Autore: Mourning
Tracklist
1. Brothers In The Stars
2. Black Hole In Human Form
3. My Hands Were Made To Hold The Wind
4. The Birth Of Tragedy
5. Individuation
6. A Nest Of Ravens In The Throat Of Time
DURATA: 52:08
Gli Obsidian Tongue si erano fatti conoscere nel 2010 con il demo "DemoTape"; successivamente avevano proposto il primo album intitolato "Volume I: Subradiant Architecture" uscito nel 2012 e che aveva ricevuto dei buoni riscontri sia da parte degli ascoltatori che dalla critica. In questo 2013 rientrano invece in scena con il secondo disco supportato dalla collaborazione fra l'etichetta canadese Hypnotic Dirge Records e la Dissociation Records. Com'è "A Nest Of Ravens In The Throat Of Time"? Nel maggio scorso Brendan l'aveva presentato così:
We took a slower and less aggressive, spacey kind of approach with the new album. We wanted to conjure a hypnotic atmosphere that perpetuates through the record, yet we wanted to cover a lot of ground within that atmosphere, conceptually and emotionally. We infused a lot of very personal ideas and feelings into these songs, almost too much to list. I'’s almost unnecessary to list... all I can really tell people is, "A Nest Of Ravens In The Throat Of Time" is our lifeblood, our mission statement, and really the only thing we give a fuck about right now.
Per quel che mi riguarda siamo dinanzi al compimento di un netto passo in avanti, in quanto il lavoro del duo (l'altro membro è il batterista Greg Murphy), pur facendo trasparire un legame sonoro ed emotivo che lo collega a realtà quali Wolves In The Throne Room, Alda, Agalloch e Ash Borer, sembra aver trovato un equilibrio sia ritmico che atmosferico in grado di fornire ai brani quella qualità tale da permettere loro una presenza ripetuta all'interno del lettore cd. Le sei canzoni contenute in questa seconda fatica degli statunitensi mostrano una diversificazione del sound che — oltre a spingersi classicamente in territorio black-atmosferico — ha nelle sue fasi maggiormente dilatate, dal respiro quasi doom psichedelico, un'ottima variante: si veda a esempio la prima traccia "Brother In The Stars", canzone nella quale la voce pulita è accompagnata dalla chitarra dotata di un suono "galleggiante".
Il cantato pulito si rivela essere una gradevole arma da utilizzare e si presta ad arricchire ripetutamente la prova degli Obsiadian Tongue, elevando il valore, di per sé alto, di episodi quali la cupa e malinconica "The Birth Of Tragedy" (segnata da una seconda parte in cui affiorano venature acustiche), la dinamica "Individuation" e la poetica "A Nest Of Ravens In The Throat Of Time" (dove partecipa John Haughm degli Agalloch).
L'album in fin dei conti non inventa nulla, ma grazie ad alcuni elementi dalle sensazioni al limite con il post-rock e allo stabile confluire di diverse sensazioni mantiene costantemente viva l'attenzione: in questo la formazione è stata brava, avendo confezionato cinquanta minuti di musica intensa e introspettiva, pronta a far andare in brodo di giuggiole i seguaci di questo specifico panorama. In caso lo foste, non vi rimane quindi che segnarvi il titolo ed entrarne in possesso, in una collezione già ricca farebbe comunque la sua "sporca" figura.
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Gruppo: Okus
Titolo: Okus
Anno: 2013
Provenienza: Irlanda
Etichetta: Underground Movement
Contatti: facebook.com/Okusband
Autore: Mourning
Tracklist
1. Blood And Oil
2. Redemption
3. Bodies
4. Light Obscene
5. Jackyl
6. Born In Chains
7. Burn It To The Ground
DURATA: 31:59
Gli Okus sono un quartetto irlandese proveniente da Drogheda, cittadina portuale sita sulla costa orientale dell'isola. Musicalmente potrei chiudere la recensione in poche parole, dicendo "rozzo è bello" e coloro che amano la scena death metal scandinava di Entombed, Grave e Dismember quanto le varianti d-beat e crust di gente come Martyrdod e Acephalix sono sicuro apprezzeranno il debutto di questi ragazzi.
La proposta è marcia, scura e priva di compromessi, la formazione non lascia spazio all'utilizzo di orpelli, innesta una marcia che prende vita con "Blood And Oil" e si chiude senza interruzioni con "Burn It To The Ground", mollando dietro di sé i resti macinati dal proprio passaggio, alle volte più intimidatorio e fottutamente indiavolato ("Redemption"), altre maggiormente greve e profondo ("Bodies") nel suo perpetuo rivoltare il terreno, sotterrando e dissotterrando odio. La mezzora insita in "Okus" non permette all'orecchio di porsi dubbi, non vi sono attimi in cui la band sbandi in direzione di modernismi o aperture melodiche altamente fruibili, non da mai la sensazione di voler mollare la presa. Il carattere psicologicamente disturbato dell'irrequieta e schizofrenica "Light Obscene", la cavalcata punk racchiusa nella grezzissima "Jackyl", le inflessioni di stampo death-doom di "Born In Chains" e lo smerigliare imperterrito di "Burn It To The Ground" non fanno che dare conferma a tale pensiero.
Gli Okus sono goderecci al massimo, il disco è stato ben prodotto da Johnny Kerr presso i Dead Dog Studios ed è alquanto azzeccata la scelta fatta sia cromaticamente che come raffigurazione per la copertina e l'interno del libretto. Vi consiglio vivamente di dare in pasto al vostro udito quest'album, vi attendono immense scapocciate e litri di birra a rendere ancor più ebbra la situazione. Buon divertimento.
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Gruppo: Ogdru Jahad
Titolo: I
Anno: 2013
Provenienza: Danimarca
Etichetta: Iron Bonehead
Contatti: facebook.com/OgdruJahad.DK
Autore: ticino1
Tracklist
1. Intro
2. Profane Devastation
3. Unholy Blessings
4. Empty Jehovah
5. Glories Of Mary
6. Necromantic Rites
7. Hobo Of Nazareth
8. Weeping Of Angels
9. Sacred Sodomy
10. Unclean Birth
11. It Is Done
DURATA: 30:46
Per alcuni potrà essere paradossale denominare il proprio gruppo di bestial black metal Ogdru Jahad, altri come me, invece, apprezzeranno la scelta coraggiosa di un nome proveniente dai fumetti per un tale progetto. La casa tedesca Iron Bonehead ha preso sotto contratto questo quartetto danese dopo due demo uscite durante le primavere 2011 e 2012.
Inizio con i fatti concreti. È raro incontrare formazioni in questa nicchia del black che perdano il loro tempo suonando assoli di chitarra; Necrocalvis s'impegna a dare un tocco di personalità alle canzoni con delle scale stridule, a volte curiose, che s'inseriscono come un fulmine a ciel sereno nel complesso della lunatica meteorologia compositiva. La musica dei danesi è da questo lato più variegata di altra, se posata sulla bilancia del bestial black metal.
Affermai a più riprese che nel genere citato un'evoluzione sarebbe stata utopica e priva di senso. Gli Ogdru Jahad sembrano volermi contraddire un pochino. Non fraintendetemi: la musica in generale rispetta i canoni e soddisfa le pretese degli adoratori del cuoio e dei chiodi da venti. Se volete avere un'idea concreta su che cosa vi aspetti ascoltando questo lavoro, gustatevi "Sacred Sodomy" che contiene tutti i punti chiave del suono della formazione: marciume, linee vocali bestiali, assoli satanici e una batteria martellante come un bombardamento a tappeto. L'unico aspetto veramente negativo per i miei gusti è il senso di ripetizione ossessivo che trovo confrontando alcune canzoni contenute nel pezzo di vinile; questi rende alla lunga l'ascolto un poco noioso.
All'attacco, all'attacco comunque, signori, l'ultimo che lascia la trincea sarà il primo a morire!
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Gruppo: Oceans Of Slumber
Titolo: Aetherial
Anno: 2013
Provenienza: U.S.A.
Etichetta: Autoprodotto
Contatti: facebook.com/oceansofslumber
Autore: Mourning
Tracklist
1. God In Skin
2. Coffin Like Kites
3. Memoriam
4. Remedy
5. Only A Corpse
6. Aetherial
7. Primordial
8. Blackest Cloud
9. Great Divide
DURATA: 58:47
Gli Oceans Of Slumber sono la formazione che non t'aspetti, quel nome sbucato dal nulla che di botto ti fa ritrovare fra le mani il disco che ti cambia la giornata, a me è successo ascoltando "Aetherial". Il quintetto di Houston, composto da membri ed ex di Insect Warfare, Ingurgitate e Demoniacal Genuflection (Dobber Beverly alla batteria, Keegan Kelly al basso, Anthony Contreras alla chitarra e Ronnie Allen dietro al microfono) ai quali si è aggiunto un chitarrista jazz (Sean Gary), è stato una felice sorpresa.
Nel momento in cui ho ricevuto il loro album sono stato un po' tratto in inganno dalla copertina che mi ha fatto pensare d'aver a che fare con l'ennesimo gruppo di death / core orientato a utilizzare soluzioni particolarmente tecniche e ampie varianti atmosferiche, per intenderci tipo i Fallujah, mentre la realtà racconta una storia ben diversa e molto più articolata. Immaginate di avere davanti un puzzle i cui i pezzi vi saranno forniti una volta che avrete incrociato tutti i brani, sì perché il vero ostacolo è racchiuso nell'impattare e digerire la massa di molteplici riferimenti che vi saranno sparati contro, è evidente che i musicisti texani non amano la tranquillità e il tenere un'unica linea guida.
Il modo in cui la band dà forma alle canzoni è caratterizzato da un mutare in corsa che al suo interno vede ruotare ossessivamente influssi stilistici derivanti da correnti disparate. Pensate a un assurdo quanto stranamente sensato amalgama di artisti quali Fear Factory, Nevermore, Amorphis, Creed, Neurosis, Machine Head e Gojira (chissà quanti ancora ve ne potrebbero venire in mente), ai quali si aggiungono i frangenti jazz e "anneriti" a fornire quei tocchi di classe e cattiveria in più. Questi ultimi vuoi per la voce, vuoi per quanto concerne la sezione strumentale, si fanno largo in composizioni discretamente intricate e mai cervellotiche, dove la melodia diviene seduttrice non in bella vista ("Memoriam" e "Remedy"), le sensazioni post e la voglia di mantenersi costantemente ibridi nello sviluppo assumono un'importanza notevole in certe sezioni ("God In Skin" e "Primordial"). La parola chiave è eclettismo.
Usare il termine "personale" per descrivere "Aetherial" potrebbe essere corretto, prendete però come metro di paragone i The Faceless di "Autotheism". Intendo dire che a rendere di molto superiore alla media il lavoro svolto dagli Oceans Of Slumber non è un'invenzione o chissà quale ammodernamento del sound, bensì l'abilità con la quale sono state assorbite, modellate ed esibite le innumerevoli influenze da cui attingono ininterrottamente; è questo, come nel caso dei loro connazionali succitati, a garantire loro quel "quid" in più che fa la differenza.
Un disco di quasi un'ora che non annoia, che tanto nelle fasi più concitate quanto in quelle più riflessive e dilatate mantiene un contatto vivo con l'ascoltatore e che non si perde dietro la ricerca della nota in più anche quando potrebbe farlo. Cosa si può chiedere di più a una prova di per sé tutt'altro che semplice da assimilare, eppure così coinvolgente? Nulla, si può comunque premere nuovamente il tasto "play" e continuare ad approfondirne la conoscenza.
Nota di colore: nella fase pre-conclusiva di "Blackest Cloud" i musicisti rendono omaggio all'inno nazionale degli States "The Star Spangled Banner", è solo un breve passaggio e tra le altre cose ben inserito nel contesto.
"Aetherial" è ispirato, avvincente e necessita di un bel po' di dedizione per conoscerne appieno le qualità, però una volta inserito nello stereo vedrete che troverà il sistema per condurvi a esso, abbiate quindi la pazienza di dedicare il tempo dovuto agli Oceans Of Slumber, ne verrete pienamente ricompensati. Fatevi un favore: compratelo!
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Gruppo: Omission
Titolo: Pioneers Of The Storm
Anno: 2012
Provenienza: Spagna
Etichetta: Emanes Metal Records
Contatti: facebook.com/OMISSION.ES
Autore: Mourning
Tracklist
1. Ab Intra
2. The Slaughter Hour
3. Drunken, Junkie & Punter
4. I Am the Devil Scythe
5. In Mourning We Dwell
6. Totally Fucked Up
7. At Last We Will Have Revenge
8. Crushing Defeat
9. Deathwish [cover Christian Death]
10. Attack Of the Living Dead
DURATA: 45:23
Gli spagnoli Omission erano passati a farci visita con il secondo album "Merciless Jaw Of Hell" e da quell'uscita a oggi sono poche le novità in casa iberica, la più importante risiede probabilmente nel cambio d'etichetta, il supporto infatti è adesso a carico della francese Emanes Metal Records, che ha preso il posto della connazionale Xtreem Music. La proposta racchiusa nel terzo episodio discografico è la solita, del resto era difficile attendersi chissà quale intraprendente evoluzione nel sound: "Pioneers Of The Storm" picchia duro e ruggisce, vestendosi completamente in stile Anni Ottanta, con il numero di formazioni citabili a influenza che come al solito diviene infinito.
Il quartetto di Madrid conosce bene il mestiere, alterna momenti più heavy evidenziabili soprattutto nelle piacevoli divagazioni in area solistica della chitarra, ad altri più estremi grazie alle accelerazioni della batteria che si spinge sino all'inserimento di lievi porzioni in "tirato" ("The Slaughter Hour"), per poi mettersi nella mani di una sequela di cliché che non guastano mai, infoltendo sia dal punto di vista tematico sia da quello musicale un disco che è una pura e semplice botta di vita. L'album non presenta fronzoli, preferendo valorizzare borchie, sesso, lapidi e alcol; sfogliando il libretto e guardando l'immagine visiva fornita dal "costume" con il quale si presentano i quattro, evidentemente figli dello stile Sarcofago e Venom che furono, o se preferite di gente più attuale come Desaster e Nifelheim, non avrete nessun dubbio su quali siano le prerogative stilistiche che incrocerete in canzoni quali "Drunken, Junkie & Punter", "I Am The Devil Scythe", "Totally Fucked Up" e "Attack Of The Living Dead".
Lascia invece leggermente spiazzati la cover dei Christian Death di "Deathwish", sia per la selezione di un brano che va molto al di fuori dell'impronta sonora con la quale armeggiano gli Omission, sia perché la loro versione è più gradevole di quanto mi potessi attendere, il sound thrash si è rivelato difatti adeguato per dar vita a una riproposizione piacevole e ben inserita nel contesto.
Gli Omission si confermano in ottimo stato di salute e se con "Merciless Jaws From Hell" vi siete divertiti, non potrete che fare lo stesso con questo "Pioneers Of The Storm", gli iberici non disattendono le aspettative, affondano il colpo e tocca a voi adesso decidere se andare a tutto thrash o rivolgere lo sguardo in diversa direzione. Io una chance a questi lavori dove i muscoli e l'adrenalina la fanno da padroni la do a priori, è buona musica, genuina, seppur soffra della mancanza di una personalità definita. Con una birra al seguito e tante scapocciate forma un trio notevole, godiamocelo e ancora una volta "thrash on"!
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Gruppo: Odradek Room
Titolo: Bardo. Relative Reality
Anno: 2013
Provenienza: Ucraina
Etichetta: Hypnotic Dirge Records
Contatti: facebook.com/pages/Odradek-Room/445674468785898
Autore: Mourning
Tracklist
1. Theatre Of Forms
2. Inflorescence Of Silence
3. A Painting (Digging Into The Canvas With Oil)
4. Suffocation
5. Faded Reality
6. River
7. Cold Light
DURATA: 58:00
Gli Odradek Room sono una formazione dallo spirito sentimentalmente sofferto, che trae a più riprese ispirazione da diverse forme di letteratura, il cui nome deriva da un racconto breve di Franz Kafka e i cui testi attingono dal "Bardo Thodol" (libro della morte tibetano). Esprimono un doom altamente atmosferico che non disdegna il divagare e sprofondare in ambito death, anche lievemente progressivo, portando alla ribalta una viscerale passione per la visione anni Novanta di creature quali primi Katatonia, Paradise Lost e My Dying Bride alle quali si potrebbero unire in seconda battuta anche October Tide e Officium Triste. Fermo restando che il verbo preposto a muovere le fila del loro debutto "Bardo. Relative Reality" pare indiscutibilmente essere "sognare", il che un po' spiazza.
Non che non si sia abituati ad affrontare musica in cui le ambientazioni melancoliche e "rilassate" tendano più a far ragionare che ad annichilire, il punto è che la prestazione del quartetto lascia interdetti in quanto emotivamente instabile, sembra riuscire a far convivere, con buonissimi risultati, un'eccessiva tumultuosità e un apparente gelido distacco che, annessi in una proposta di per sé naturalmente tutt'altro che diretta, potrebbero inizialmente complicare l'entrata in connessione con le canzoni.
L'album necessita di tempo per crescere ed essere apprezzato, ma una volta che la musica avrà trovato la chiave scardinante quella sensazione d'incerto, riuscirà a irretirvi con brani quali "Theatre Of Forms", "A Painting (Digging Into The Canvas With Oil)" e "Faded Reality". Gli ultimi due episodi citati rappresentano la "summa" delle scelte e delle idee targate Odradek Room sia per la capacità di sfoggiare una aggressività e pesantezza prorompente che per il modo in cui vengono inserite le sospensioni galleggianti adibite ad aumentare la consistenza del comparto atmosferico.
Il gruppo è solo al primo vero capitolo della storia, però dimostra di essere già in grado di destreggiarsi all'interno di questo mondo di suoni e vibrazioni; utilizza sapientemente le tastiere e inserisce in modo adeguato le campionature che vanno a integrarsi con successo nello scorrere delle tracce. Con il prossimo album riusciranno a fare centro pieno? Chi lo sa. Comunque per non sbagliare basterebbe tenerli d'occhio, e in fondo che ci costa? Si può dare un ascolto a "Bardo. Relative Reality", ciò che ne deriverà sarà tanto di guadagnato.
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Gruppo: Oneirogen
Titolo: Kiasma
Anno: 2013
Provenienza: U.S.A.
Etichetta: Denovali Records
Contatti: facebook.com/oneirogenvoid
Autore: Mourning
Tracklist
1. Numina
2. Pathogen
3. Mutilation
4. Imminence
5. Katabasis
6. Gauze
7. Mortisomnia
DURATA: 50:09
Dietro il nome Oneirogen si cela l'artista newyorkese Mario Diaz De Leon, sin qui autore dell'album "Hypnos" rilasciato nel 2012 e seguito nello stesso anno dall'ep "Veni Nox Anima". La sua collaborazione con la Denovali Records, già supporto ideale per quelle uscite, prosegue nel 2013 con l'avvento del secondo capitolo discografico "Kiasma". La proposta è complessa e di difficile assorbimento, soprattutto per coloro abituati alle basi ritmiche disegnate dalla batteria, strumento che viene praticamente messo di lato, se non per sparute "apparizioni" campionate all'interno della traccia conclusiva "Mortisomnia".
Descrivere l'album rinchiudendolo in un circolo preciso di sonorità è difficile, sembra di avere a che fare con Sunn 0))), Nadja, Mogwai, Cult Of Luna e Tangerine Dream shakerati... cosa ne sarà venuto fuori? Immaginate un abisso di armonie dolciastre e ampie capaci d'inglobare in sé una catena di emozioni sconfinata. Questa fossa, divorando perennemente l'animo, ne muta la tensione e la velocità di caduta, fornendo all'ascoltatore pallide speranze caratterizzate dalla fluidità angelica, seppur scura e in parte corrotta, dei sintetizzatori per poi spezzarle impietosamente. Un manto nero e disturbato infatti le avvolge, con la componente drone e l'ossessività obliante del doom che sembrano convergere in maniera inesorabile. Prendete in considerazione la doppia accoppiata composta da "Pathogen" - "Imminence" e "Katabasis" - "Gauze" quale riferimento per farvi coinvolgere in tale accentuato contrasto sensoriale.
A quell'invitante quartetto di brani che divide il vissuto fra sogni ingrigiti e veri e propri incubi si uniscono le rimanenti "Numina", traccia posta in apertura che idealmente sarebbe perfetta da inserire in una colonna sonora da film di fantascienza, "Mutilation", dove la sensazione atmosferico-spaziale è decisamente più cristallina ed espansa, e la già citata "Mortisomnia", inquietante e dal sottofondo lacerato dall'intrusione della voce maligna. La chiusura infine è suggellata con un crescendo etereo e dilaniante dei sintetizzatori.
Gli Oneirogen sono consigliati agli esploratori di paesaggi sconfinati, agli abituali fruitori del panorama elettronico che potranno più facilmente assorbirne gli umori e in genere a tutti coloro i quali cercano un equilibrio fra toni scuri, drammatici e luci di riflesso. "Kiasma" rientrerà di certo nella vostra lista degli acquisti da fare.
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Gruppo: Okular
Titolo: Sexforce
Anno: 2013
Provenienza: Norvegia
Etichetta: Regenerative Productions
Contatti: facebook.com/okularmetal
Autore: Mourning
Tracklist
1. House Full Of Colours
2. Not Separate
3. Sexforce
4. The Greatest Offender
5. Ride The Waves Of Emotion
6. Rest In Chaos
7. The King Of Life
8. Exposing The Good Citizens
9. Feast Upon The Illusory
10. Birth Through Loss
11. To Ring The Bells Of Truth
12. Politically Incorrect Experiences
13. Educated For Enslavement
DURATA: 58:55
Se si è davvero grandi, lo si dimostra in qualsiasi occasione e gli Okular confermano di esserlo. La formazione nata per volontà di Andreas Aubert, che per la circostanza ha dato vita anche a una propria etichetta a supporto chiamata Regenerative Productions, mi aveva già impressionato ed entusiasmato col debutto "Probiotic" ed è riuscita a esaltarmi nuovamente con il secondo lavoro "Sexforce".
La creatura ha proseguito il discorso iniziato con il primo album, forte anche di una formazione invariata, apportando alcune modifiche al processo di composizione, adesso ancor più complesso in alcuni frangenti senza per questo aver rinunciato alla fruibilità che lo rendeva particolarmente intrigante, e all'impostazione ritmica tanto che la prova di Bjørn Tore Erlandsen si candida al ruolo di prima nota positiva, ma andiamo con ordine. "Sexforce", come il precedente "Probiotic", è un'anima contorta che coniuga perfettamente parole e note: se da un lato troviamo infatti soluzioni che portano a pensare a una miscela personale di soluzioni che rimandano a figure conosciute quali Gojira, Obscura, Opeth e Meshuggah, dall'altro vi è un'impronta tematica profonda, riflessiva e cruda quanto approfondita degna del migliore Chuck Schuldiner, peraltro corroborata da una rappresentazione grafica calzante all'inverosimile.
Sì signori, siamo dinanzi a un'opera completa capace di mettere sul piatto della bilancia mazzate pesanti come "Feast Upon The Illusory" ed esecuzioni variopinte tipo "The Greatest Offender" (nella quale l'ottima apertura di stampo acustico e il ritornello in voce pulita a cura di Mr. Vintersorg fanno la differenza), di impostare lo scenario in maniera spiccatamente melodica in "Ride The Waves Of Emotion" e lasciare di lato le chitarre a favore del piano suonato da André Aaslie in "To Ring The Bells Of Truth".
La forza degli Okular risiede nella qualità compositiva molto al di sopra della media: Andreas è una mente con i controfiocchi ed è agevolato, strumentalmente quanto vocalmente, in questo nuova fatica dall'egregio operato svolto dal chitarrista-cantante Marius S. Pedersen (e da Pål Mathiesen "Athera", suo compagno dietro al microfono in più di una circostanza), dal bassista Martin Berger Enerstvedt e dal precedentemente chiamato in causa Erlandsen che, come scritto poco più su, dimostra di aver apportato miglioramenti sostanziali al proprio lavoro, lo si nota soprattutto nell'uso della doppia cassa e nello sviluppo dinamico dei cambi di tempo adesso più oculati e incisivi.
"Sexforce" è andato ben oltre le più rosee aspettative riposte nella musica di questi norvegesi, è uno di quei dischi assolutamente da non farsi mancare in collezione, direi anche un bello schiaffone in faccia a tutti coloro i quali giornalmente lamentano l'assenza di album qualitativamente validi da poter nominare di fianco a quelli prodotti dai colossi del passato. Anche se lo scrivo in piccolo, si tratta di un "capolavoro". Gli Okular insieme ai grandi ci stanno bene e se il terzo episodio discografico fosse migliore dei primi due? In quel caso un posto nell'Olimpo del genere non dovrebbe esser loro negato.
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Gruppo: Overtorture
Titolo: At The End The Dead Await
Anno: 2013
Provenienza: Svezia
Etichetta: Apostasy Records
Contatti: facebook.com/Overtorture
Autore: Mourning
Tracklist
1. Black Shrouds Of Dementia
2. Murder For The Masses
3. Slaves To The Atom
4. The Outer Limits
5. Targets
6. The Strain
7. The Coming Doom
8. Towards The Within
9. Suffer As One
10. At The End The Dead Await
DURATA: 40:48
Suonare svedese per vocazione o per moda? Leggendo un nome sconosciuto come Overtorture il primo pensiero potrebbe ricondurre alla seconda opzione. L'ennesima band che si getta a capofitto nel revival provando a dire la sua, ma (e c'è il ma) i musicisti in formazione sono tutti personaggi che vivono nel panorama scandinavo death metal ormai da una vita e alcuni hanno militato, o lo fanno tuttora, in realtà quali Grave, Insision, Demonical e Coldworker.
Si parte quindi dal presupposto che le radici siano radicate, estremamente resistenti e sin dalle battute d'apertura del debutto "At The End The Dead Await" è chiaramente udibile che sia la scena di Stoccolma a farla da padrone con puntate lievi, tuttavia indovinate, di atmosfere e armonizzazioni in uso al tempo nella zona di Gothenburg. La proposta del quintetto è solida come il granito, il più delle volte basata su riff semplici, però forniti di una buona dose d'efficacia, snocciolati da Magnus Martinsson (abile anche nell'inserire all'interno dei brani dei brevi e azzeccati assoli che stemperano lo svolgimento, rendendolo meno granitico) e Andreas Hemmander. Il lavoro svolto dalle due asce viene supportato con grinta dalla prestazione rocciosa e colma di groove dall'accoppiata ritmica che vede Joakim Antman al basso e Fredrik Widigs alla batteria, oltre che dall'intransigente e profonda prova dietro al microfono di Joel Fornbrant, tassello che si pone a mo' di ciliegina sulla torta.
Intransigente è proprio la parola adeguata a identificare l'intero operato della band, gli Overtorture infatti non si concedono un attimo di fuga dagli schemi rodatissimi del passato, presentando comunque una scaletta degna di inaugurare delle serie d'ascolto ripetute grazie a un quintetto di episodi composto da "Black Shroud Of Dementia", "Slaves To The Atom", "The Outer Limits", "The Strain" e "Suffer As One" che mantiene alto il livello del godimento. "At The End The Dead Await" è il classico disco per onnivori del genere, una di quelle uscite fatte apposta per chi è cresciuto con il pallino della Svezia death e ai quali non potrà che risultare piacevole all'orecchio.
È inutile attendersi il "capolavoro" epocale nel 2013, è doveroso invece pretendere quantomeno della buona musica e in questo gli Overtorture ci danno una mano. Buona la prima!
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Gruppo: Ocean Chief
Titolo: Sten
Anno: 2013
Provenienza: Svezia
Etichetta: I Hate Records
Contatti: facebook.com/pages/OCEAN-CHIEF/31120371675
Autore: Mourning
Tracklist
1. Den Sanna Styrkan
2. Slipsten
3. Stenhög
4. Oden
DURATA: 01:11:47
Gli Ocean Chief mi fanno letteralmente godere, perciò non comprendo il motivo per cui questa compagine svedese sia così poco conosciuta e addirittura sottovalutata. Non si parla di musicisti alla prima esperienza, qui fra membri ed ex di realtà quali Regurgitate, Dawn, Maim, Vanhelgd e Catapult The Smoke (solo per citarne alcune) si è sicuri di essere capitati in buone mani e il quarto disco "Sten" (pietra), rilasciato tramite l'etichetta connazionale I Hate Records, è un'ulteriore riprova che il quartetto di Mjölby è di quelli da supportare e comprare.
Sono estremamente positivo? Vi sembro un fan esagitato? Può darsi, però seguendo con discreta costanza la scena doom ho potuto constatare che questi signori nei loro dieci anni e più di carriera non si sono mai adagiati. Partendo da influenze di stampo classico quali Black Sabbath, Sleep ed Electric Wizard, hanno trovato il modo di far convivere la base del mondo stoner/doom con le evoluzioni odierne che si sono distinte per personalità e una conformazione dai tratti epici e fortemente inclini alla raffigurazione delle proprie sensazioni, dando ai lavori una forma completa a trecentosessanta gradi. Del resto gruppi del calibro di High On Fire, Ahab, Yob e Kongh si sono guadagnati i favori di molti per le indubbie qualità delle uscite a loro nome, c'è poco da discutere su questo. Questi scandinavi possiedono un potenziale e una resa tale da metterli sullo stesso piano delle formazioni tirate in ballo? Assolutamente sì.
I settanta e rotti minuti racchiusi nei quattro estesi capitoli dell'album inglobano una mole musicale mastodontica, i riff sono grevi, pesanti e scavano in profondità, le melodie intagliano all'interno dei brani percorsi malinconici dal retrogusto amaro, emanando una sensazione di antico che viene esaltata dalla diligente combinazione di vere e proprie evocazioni in note ed espansioni atmosferiche sconfinate: è un adorabile mattone del "destino". Tutto questo gigantesco ammasso assume una posizione ferrea, a tratti quasi inamovibile, e il suo essere avvolto da una coltre fuzz, rafforzando la base con movimenti ciclici in alcuni casi quasi estenuanti per il modo in cui si accaniscono sull'ascoltatore, fa di "Sten" una creatura maggiormente ancorata all'incarnazione doom rispetto a quelle più varie, sia per gli elementi di stampo stoner accentuati che per le scorribande in territori esterni a tale panorama, insite nelle proposte dei colleghi menzionati poco più su.
Il bello degli Ocean Chief è questo, non esiste una via di mezzo, sono estremi e privi di situazioni che si possano definire accondiscendenti nei confronti di coloro i quali si cimentano nell'ascolto. Del resto anche la prestazione vocale di Tobias Larsson — per quanto fiera — si mantiene costantemente severa, rigida e impositoria.
Sì, lo so, le canzoni a qualcuno potranno sembrare esageratamente allungate, forse anche diluite, reputo comunque adeguato lo sviluppo così ossessivo e prolungato, modellato appositamente per un concept che ancora una volta ci racconta dei miti norreni. È volutamente pachidermico, come fatto apposta per allontanare chi per scarso interesse o mancanza di trasporto emotivo non riesce a trovare una connessione con il disegno narrativo targato Ocean Chief.
"Sten" è stupendo, tuttavia non è un album consigliabile a chiunque, è già una discreta "gatta da pelare" per gli appassionati del genere che se la dovranno vedere davvero con una "pietra" e fondamentalmente necessita di pazienza e del desiderio di cadere in balia del sound degli svedesi per goderne appieno. Senza questi due elementi sarà difficile reggerne le sorti, quindi a voi adesso decidere se tentare o meno d'intraprendere questo duro, ma gratificante viaggio in loro compagnia.
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Informazioni
Gruppo: Obscurity
Titolo: Obscurity
Anno: 2012
Provenienza: Germania
Etichetta: Trollzorn Records
Contatti: facebook.com/obscuritybergischland
Autore: Mourning
Tracklist
1. In Nomine Patris
2. Obscurity
3. Germanenblut
4. Strandhogg
5. Ensamvarg
6. Blutmondzeit
7. Jörmungandr
8. Weltenbrand
9. Fimbulwinter
10. Kein Rückzug
11. So Endet Meine Zeit
DURATA: 51:12
Dopo varie sessioni d'ascolto di "Obscurity", sesto capitolo discografico dell'omonima band tedesca, non so se esserne parzialmente deluso o confortato. La formazione che avevo incrociato in precedenza con "Tenkterra" sembra abbia leggermente "tirato i remi in barca" e ciò che mi viene da chiedere è: perché?
La proposta — quel cosiddetto "viking metal" melodico e battagliero nel quale gli Amon Amarth erano, e sono, presenza fissa e in alcuni frangenti figure annerite che facevano capolino rendendolo maggiormente fiero e gelido — si è mantenuta su livelli soddisfacenti per quanto riguarda l'energia profusa all'interno dei brani, per l'impegno strumentale messo in mostra dal collettivo e per l'ambito compositivo in fin dei conti più che accettabile, seppur pecchi stavolta di una prevedibilità più accentuata rispetto al passato. Ciò che invece risulta levigato è il fervore, la sensazione di "scontro fisico" che dava agli album precedenti una spallata adrenalinica è stata "sottomessa", gli Obscurity hanno preferito affidarsi a sezioni melodiche ancora più orecchiabili e fruibili, oltre che a una produzione protesa a uno sviluppo atmosferico che acuisce le sensazioni più scure donate ai pezzi, ma che infine colpisce poco.
Se da un lato queste scelte sono portatrici di vantaggi, chi ad esempio si è appassionato agli ultimi lavori di Hegg e soci troverà sicuramente più di un punto in comune con l'evoluzione intrapresa dal gruppo svedese nel sound odierno, dall'altro si nota come l'aver messo in rilievo le chitarre, odiernamente meno ispirate rispetto al passato, non sia stata poi una mossa del tutto riuscita e l'impostazione vocale di un Agalaz alle volte leggermente statico di certo non gioca a favore del gruppo.
Non posso asserire che "Obscurity" sia brutto, tracce come "In Nomine Patris", la titletrack, "Ensamvarg", "Weltebrand" e la conclusiva "So Endet Meine Zeit" possiedono comunque quelle caratteristiche che conosciamo a menadito, ma che continuano a piacerci anno dopo anno. Se la scaletta avesse mantenuto nella sua interezza il livello più che sufficiente degli episodi citati, avremmo difatti fra le mani un disco che il sei canonico sarebbe riuscito a mangiarselo a colazione. Allo stato attuale invece ci dobbiamo accontentare di una prova "degna", tuttavia non fra le migliori regalateci dalla band, mi chiedo difatti cosa c'azzecchi "Strandhogg" che in più parti sembra figlia dei nuovi Satyricon...
Chi sono gli Obscurity oggi? Una formazione combattiva, capace di non demordere, dotata di una discreta qualità da fabbro e che nonostante ciò rischia di non emergere quanto dovrebbe, e potrebbe, rimanendo per l'ennesima volta bloccata in una fase di transizione che sta divenendo interminabile. È un peccato, vorrà dire che ci toccherà attendere ancora per poter dir loro un sentito bravi. Alla prossima.
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Informazioni
Gruppo: 0 X í S T
Titolo: Nil
Anno: 2012
Provenienza: Finlandia
Etichetta: Ostra Records
Contatti: facebook.com/pages/0-X-í-S-T/168252696546081
Autore: Mourning
Tracklist
1. Old World Vanished
2. Nil
3. Cold Dark Matter
4. Arrival
5. Anemone Patens MCCXLIX
6. Of Wood, Stone And Bone
7. Shrivel
DURATA: 44:48
Gli 0 X í S T sono una formazione finnica sorta nel 2008, nella quale è rimasto soltanto un membro originale: il cantante e chitarrista Janj Koskela, già nei Saattue e nei Let Me Dream, ed ex Congestion. Il musicista è attualmente accompagnato in quest'avventura dal batterista Mikael Ahlstén (ex di Embassy Of Silence, Saattue e Ultra Mayhem) e dall'ultimo entrato Sameli Köykkä al basso (Saattue, ex Colosseum, ex Demysh ed ex Drown Me Blue), mentre l'altro chitarrista Henrik Hajanti ha abbandonato il progetto sul finire del 2012. La band ha prodotto nel 2010, quindi durante la fase di assestamento, l'ep "Unveiling The Shadow World" e il demo "Demo 2010", attendendo altri due anni prima di dare alle stampe il debutto "Nil".
L'album sin da subito mette in chiaro che la professionalità dei musicisti coinvolti, il songwriting e la prestazione che andremo di passo in passo incrociando sono di qualità ben superiore alla media, del resto gli artisti in questione non sono degli sprovveduti. La loro proposta a base di "dark metal", o per farla più semplice doom/death dall'impianto atmosferico gotico particolarmente pronunciato, riesce a essere convincente sia per quanto concerne le dinamiche di sviluppo dei brani — esempio palese è il lavoro alla batteria di Mikael, robusto, spesso non elaboratissimo, ma vario quanto basta a evitare staticità — sia per la capacità di gestire il binomio emozionale disperazione-evocazione. Il cantato roco, aggressivo e graffiante di Jani, intervallato con aperture in pulito o al limite con il recitato (come avviene nella titletrack e in "Of Wood, Stone And Bone", nella quale però il parlato e il sussurrato sono a cura dell'ex batterista Andy Koski-Semmens), garantisce in tal senso un ottimo supporto.
Il disco non accelera mai notevolmente l'andazzo ritmico per spezzare l'ambientazione che di brano in brano tende a raggelarsi, mentre aumenta il peso dell'oscurità che l'avvolge in "Cold Dark Matter" e innalza una coltre emotiva grigia, densa e massiccia in "Anemone Patens MCCXLIX", dimostrando sempre e comunque di essere in grado di alimentare l'impianto melodico con soluzioni intriganti e annichilenti, rappresentate in "Of Wood, Stone And Bone". Insomma riesce a essere alquanto sfaccettato senza per questo doversi snaturare.
I finlandesi sono competitivi e in possesso delle qualità per esserlo, del resto "Nil" è un biglietto da visita privo di pecche realmente considerabili tali, anche la produzione pulita, a tratti quasi cristallina, si pone a loro favore. Se invece dovessi cercare il cosiddetto pelo nell'uovo, potrei pensare che nell'immettersi sui pezzi Koskela avrebbe forse potuto animare le linee vocali in maniera lievemente più differenziata, in alcuni momenti si ha l'impressione che sia molto "impostato", è però una rigidità stilistica che onestamente trovo adeguata alla severità dai connotati decadenti degli 0 X í S T e che quindi non riesco a considerare come fattore "negativo".
La band è promettente e il lavoro è di quelli che rimarrà nelle stereo per un bel po', non mi resta da fare che proporvi l'ascolto del trio e augurare loro di perseguire questa strada, sperando che in futuro siano in grado di offrirci prove anche migliori di quanto lo sia già questo gradevolissimo "Nil". Teneteli d'occhio.
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Gruppo: Orloff
Titolo: Apparitions Among The Graveyard Skies
Anno: 2012
Provenienza: U.S.A.
Etichetta: Razorback Records
Contatti: facebook.com/orloff666
Autore: Mourning
Tracklist
1. Intro: Vampire Circus
2. Cobwebbed And Decayed
3. Crimson Deathshroud
4. House Where The Beast Dwells
5. Count Orloff Has Risen From The Grave
6. Thrall Of The Death's Head
7. Nine Eternities In Doom
8. Paralyzed Entities
9. Apparitions Among The Graveyard Skies
10. The Needful Revenge Of Arthur Grimsdyke
11. Chamber Of Chills
12. Master Of The Morbid
13. Outro: The Mummy's Tomb
DURATA: 49:45
Quando fra le mani ti capita un disco targato Razorback Records sai già che il viaggio che stai per intraprendere ha per destinazione d'arrivo l'orrore.
L'etichetta statunitense è specializzata nel dar vita ad album animati dalla cinematografia, dalla letteratura e dalla quotidianità in possesso di un legame a doppio filo con quella prima caratteristica e gli Orloff, nome che presumibilmente dovrebbe derivare dal malevolo Dr. Orloff, creatura di Jesús Franco, non fanno di certo eccezione.
Il quartetto composto da Alucarda Bellows (voce), Waldemar De Marnac (basso e voce), Assassin (chitarre) e Coffin Fiend (batteria) incarna a pieno titolo tutti gli stilemi cari alle uscite Razorback: abbiamo a che fare con un death metal retrò rivolto con lo sguardo al finire degli anni Ottanta, primissimi anni Novanta, in cui ritroviamo in alcuni frangenti la bastardaggine del grind di prima generazione, le aperture doom e le movenze organistiche tese ad aumentare esponenzialmente la componente "horrorifica" del sound.
In pratica prendete i Necrophagia dei bei tempi, gli Acid Witch e un paio di altri nomi passati per quelle lande e avrete dei riferimenti solidi ai quali aggrapparvi per accingervi all'ascolto di "Apparitions Among The Graveyard Skies", debutto di questi statunitensi.
La musica non sarebbe potuta essere quindi che sinistra e minacciosa, l'intro strumentale "Vampire Circus" è solo una breve avvisaglia di ciò che andremo a incrociare successivamente e le note leggiadre, ma tutt'altro che brillanti, ci conducono a "Cobwebbed And Decayed", la traccia che dà il reale via alle danze.
La canzone si presenta con un assolo smargiasso e adrenalinico per poi sprofondare lentamente in una melma ribollente e infernale, è death metal rozzo nel quale il growl macerante e riverberato acuisce la sensazione di decadenza, peraltro riprovata dalla successiva "Crimson Deathshroud", ben più varia e teatrale.
L'ingresso, affidato all'organo che ci intrattiene per un minuto e mezzo circa, è dedito a favorire l'incontro con una traccia nella quale vengono fuori la bestialità e la rovinosa ossessione fornita dalle cadenze "horrorifiche", più o meno speed a seconda del carico di astio che si portano dietro, mentre è pura collera ad alimentare il terzetto di brani a seguire che vede fare pressione puramente sull'aspetto della cattiveria profusa.
"House Where The Beast Dwells", "Count Orloff Has Risen From The Grave" e "Thrall Of The Death's Head" infieriscono in maniera massiccia, il secondo episodio è caratterialmente più riflessivo e meditativo nel suo svolgersi, ma non per questo meno malvagio: le linee di chitarra acustica, malinconiche e dal gusto latino, s'incastrano alla perfezione con l'atmosfera che mantiene sempre e comunque fitta la cappa nera addensata in antecedenza.
Con l'avvento dapprima di "Nine Eternities In Doom" — ispirata dalla pellicola di Robert Fuest "The Abominable Dr. Phibes (Nine Eternities in Doom!)", con Vincent Price attore principale, pezzo nel quale il verbo musicale di Killjoy e soci è stato accolto con successo e senza mezzi termini — e poi di "The Needful Revenge Of Arthur Grimsdyke" — tributo al personaggio interpretato da Peter Cushing in uno degli episodi racchiusi in "Tales Of The Crypt" di Freddie Francis, dallo spirito quasi stoner/death — il disco sfodera le proprie gemme, lasciando che siano "Master Of The Morbid" (il testo si pone come un omaggio alla visione oscura dello scrittore Edgar Allan Poe) e l'outro "rockeggiante" "The Mummy's Tomb" a fornire degna conclusione all'itinerario da "museo degli orrori" egregiamente orchestrato dagli Orloff.
Intendiamoci, "Apparitions Among The Graveyard Skies", per coloro che abitualmente ascoltano e comprano uscite del genere, non apporta nulla di nuovo al settore: è l'ennesima prova che vale la pena possedere perché questo mondo piace e la si gode alla grande, perché suona "old" e le tematiche, per quanto siano infoltite di cliché, si adorano per ciò che sono, evitando di pensarci su due volte, insomma un album da comprare e stop.
D'altro canto qualche difetto, seppur minuscolo, il lavoro lo possiede, cioè una produzione che forse un po' più pulita avrebbe giocato a favore della resa del complesso strumentale, ma lamentarsi è inutile, sarebbe come chiedere a Dracula di bere solo succo di pomodoro, che horror ne verrebbe fuori? Triste, se per caso dovesse piacervi "Dracula - Morto E Contento" di Mel Brooks non disprezzereste ugualmente la scelta, sarebbe però altra storia e dal contenuto troppo vivo e divertente per prenderla in seria considerazione, almeno in questo caso.
A voi adesso decidere cosa fare: io fossi in voi una chance agli Orloff non la negherei.
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Gruppo: Omotai
Titolo: Terrestrial Grief
Anno: 2012
Provenienza: U.S.A.
Etichetta: The Treaty Oak Collective
Contatti: facebook.com/omotai
Autore: Mourning
Tracklist
1. Vela Hotel
2. This Is For Zora
3. Spanish Constellation
4. Spidercave
5. Seabitch
6. Terrestrial Grief
7. Lurching Away
8. Orison
9. Life In The Hive
10. Hollow Innards
11. Yuri
DURATA: 36:24
La notte per il sottoscritto continua a rivelarsi come il momento più adatto per ascoltare e ricercare musica nuova e nei tanti giri fatti nell'ultimo periodo ho avuto anche la botta di culo d'imbattermi nel Bandcamp degli Omotai.
Dopo aver assorbito un paio di tracce, già convinto mi collego su Facebook, do il mio personale "mi piace" e contatto la band, che devo ringraziare per la disponibilità nel rispondere, e mi ritrovo adesso fra le mani un "Terrestrial Grief" che fa paura.
Il trio di Houston è composto da Melissa Lonchambon al basso, Anthony Vallejo alla batteria e Sam Waters alla chitarra, tutti e tre sono coinvolti nella sezione vocale, suonano sludge, ma chiariamolo subito: se è qualcosa di classico che riconduca a nomi quali Down e Crowbar che immaginate, lasciate perdere, questa è tutt'altra storia.
Il suono è bastardo e imbastardito, vi sono le fragranze melodiche ed eteree di gente come gli Isis, le progressioni pesanti dei Mastodon, i ritorni di feedback cari al noise dei Sonic Youth e una pressione e irruenza che non sfigurerebbero di certo se affiancate a compagini quali Kylesa e Converge; potrei dilungarmi nel citare nomi su nomi, lascio a voi però scoprire se vi sia dell'altro.
Il disco è un macigno, sono trentasei minuti che ti si piantano contro facendoti capire immediatamente chi comanda, l'apertura con "Vela Hotel" è un cazzotto allo stomaco, la frenesia e l'andamento smodato e ipnotico a intervalli fanno sì che la tracklist fili via imperante e corrosiva, ma al medesimo tempo lasciandosi dietro una indubbia scia fascinosa, avrete infatti a che fare con situazioni diverse, seppur collegate a un modo di sferrarsi contro l'ascoltatore univocamente avvolto da un fascio di suoni tremendamente sollecitante.
Onestamente mi è difficile scegliere quali siano i pezzi migliori all'interno di una scaletta così ben fatta, potrei citare le turbolenze costanti che inquietano "Spidercave", l'ambiente da sogno che apre la titletrack e un trio finale che vede susseguirsi clavate quali "Life In The Hive", "Hollow Innards" e "Yuri", tuttavia cos'avrebbero di meno le variazioni progressive disturbate dai flussi elettronici di "Spanish Costellantion" e le distorsioni esagerate racchiuse in "Seabitch"? Nulla, quindi il blocco unico e compatto è preferibile viverlo per intero magari con il "repeat" pronto a entrare in azione.
Gli Omotai sono bravi e sanno come muoversi, il basso di Melissa è rumoroso e filtra perennemente, non vuole rimanere inabissato e questo è piacevole dato che crea una sorta di contrasto che rafforza la sensazione schizoide che s'impossessa della chitarra di Sam, abile nel passare da riff di stampo ciclico ad altri che offrono sferzate di rabbia pura dilettandosi inoltre in fraseggi ridondanti e altri che quasi quasi vorrebbero sfociare in aree tranquille, pretende troppo? Può darsi, però vi riesce bene e con il supporto dinamico garantito dalle pelli indiavolate, percosse con furore e che innestano i cambi di ritmo in corsa al momento giusto, Anthony è una più che discreta macchina da guerra, il godimento è garantito.
"Terrestrial Grief" è un ottimo album, un debutto che toglie il fiato e che soggiorna, e soggiornerà, fra i miei ascolti per parecchio tempo, il mio consiglio è quindi quello di recarvi prima sulla pagina Bandcamp della band, prestare orecchio e subito dopo aver appurato se per voi valga la pena o meno di possederlo, e io pendo fortemente per il sì, acquisirne una copia tramite i musicisti o l'etichetta The Treaty Oak Collective, che sta muovendo i suoi passi iniziali producendo dei buoni lavori. Qualunque sia l'opzione dai voi preferita non lasciateli passare inosservati, sarebbe davvero un peccato.
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Gruppo: Okkultokrati
Titolo: Snakereigns
Anno: 2012
Provenienza: Norvegia
Etichetta: Fysisk Format
Contatti: facebook.com/okkultokrati
Autore: Mourning
Tracklist
1. No Ouroboros
2. Snakereigns
3. Invisible Ley
4. I Thought Of Demons
5. Acid Eagle One
6. Unconscious Mind
7. We So Heavy
8. Let The Sun Receive Her King
9. Nothing Awaits
DURATA: 37:23
La Norvegia "nera" che conosciamo è scomparsa anni e anni fa, ma c'è chi dice vi sia ancora un movimento tutto sommato vivo, pensate a band quali Mare, Kaosritual e Skuggeheim, altri preferiscono guardare oltre; eppure andando a spulciare e oltrepassando le uscite di stampo classicamente black anni Novanta, di materiale da ascoltare con interesse ce n'è eccome, soprattutto se si punta su chi si dedica a un ritorno alle radici che guarda molto più indietro, come fanno del resto gli Okkultokrati.
La formazione proveniente da Oslo insieme a Blackest Woods e Haust da vita a quella che da loro stessi viene denominata la "Black Hole Crew", metallo che suona distintamente annerito, ma che nelle influenze attinge fondamentalmente da un passato ancor più primordiale di quello creato dalla scuola nazionale. Ascoltando il loro secondo album "Snakereigns", vi accorgerete infatti che palesemente vengono a galla nomi fondamentali per chiunque sia un adoratore della storia del genere: Motorhead, Venom e Celtic Frost (e da qui ai Darkthrone il passo è comunque breve) s'incontrano con l'hardcore dei Black Flag, ai quali si aggiungono in alcune circostanze delle immersioni in territorio doom/sludge alcolico e il feeling death metal scandinavo per rincarare la dose di pesantezza e quella sensazione di sfiancamento che emerge in un paio di occasioni in "Acid Eagle Ones" e "We So Heavy".
"Snakereigns" è un lavoro che macina, eppure sa quando frenare, aumentando il carico atmosferico e spostando la proposta verso lidi ancora più serpeggianti. Dopo l'inizio scoppiettante fornito da "No Ouroboros" e dalla titletrack, troviamo una "Invisible Ley" che puzza di disperazione e a tratti si concede l'intromissione di fasce psichedeliche oscure; poi l'animosità punk della successiva "I Thought Of Demons" viene assorbita totalmente dall'immersione nelle lande paludose della già citata "Acid Eagle One". Le scorribande irruente di "Unconscious Mind" finiscono invece inghiottite dalle infettive scanalature di "We So Heavy", altro episodio già nominato. Stiamo per concludere l'ascolto e c'è ancora di che sbronzarsi.
Sono soltanto due le tracce rimaste: "Let The Sun Receive Her King" e "Nothing Awaits"; come si era iniziato si finisce, i ritmi si rialzano, la batteria diventa nuovamente più veloce e impattante, l'adrenalina scorre e mi auguro che vogliate accompagnare tali momenti con della buona birra, tenerla a portata di mano vi farebbe comodo.
Il disco, al contrario di quanto ci si potrebbe attendere, non è fornito di una produzione scarna e caotica, pur essendo fangosa e rude, a tratti spigolosa, mantiene infatti una certa "pulizia" di fondo che permette di entrare a contatto con le varie sfaccettature dei pezzi. A qualcuno potrà risultare non gradevolissima come scelta, personalmente la reputo corretta, sono troppe le uscite gambizzate per colpa di soluzioni estreme dietro il mixer nell'uno come nell'altro verso, questa è una sorta di mediazione che si pone a favore di ciò che gli Okkultokrati trasmettono con la loro musica.
Ci si può lamentare della solita "pasta e cocuzza"? Se state cercando una proposta "alternativa" e avanguardistica di sicuro avete sbagliato luogo dove guardare, i norvegesi, per quanto rappresentino un incrocio di più stili, hanno un'alimentazione sonora a base di tradizione, li si può forse biasimare per questo? Con tutta probabilità "Snakereigns" non diverrà mai un ascolto necessario per la nostra sopravvivenza, ma diverte e fa dimenare, se ciò vi basta, un paio di giri nello stereo riuscirà a guadagnarseli con estrema facilità.
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Gruppo: Overlorde Sr
Titolo: Medieval Metal Too
Anno: 2012
Provenienza: U.S.A.
Etichetta: Heaven & Hell Records
Contatti: facebook.com/OverlordeSR
Autore: Mourning
Tracklist:
1. Full Speed Ahed
2. Keeper Of The Flame
3. Enchantress Of The Night
4. In The Year 2525
5. Knights Of The Realm
6. So Be It
7. Trouble
8. Keeper Of The Flame [Metal Massacre version]
DURATA: 30:51
Al giorno d'oggi riscoprire l'underground ottantiano sembra essere di moda più che mai, devo dire che spesso è un vantaggio ed un piacere approfittare di questo scavare, soprattutto per chi, come il sottoscritto, anagraficamente non possiede l'età per averne vissuto la magia.
Gli Overlorde SR furono una band statunitense fondata nel 1979 e con all'attivo due demo rilasciate nel biennio 1986-1987: "Medieval Metal" e "1987 Demo".
Le tracce originali di quei due lavori sono appena sei, nella tracklist ne appaiono invece otto dato che sono state inserite la cover del duo country folk Zager & Evans "In The Year 2525" (contenuta nell'album "Exordium And Terminus" del 1969) e una versione ri-registrata della "hit" "Keeper Of The Flame", a dire il vero non molto diversa dall'originale, soltanto meglio prodotta.
Il sound del quintetto proveniente dal North Carolina (Fayetteville) è una combinazione fra la N.W.O.B.H.M. di Saxon e Steeler e l'epic metal di Omen e Manilla Road. È cupo, pesante e fiero nella già citata "Keeper Of The Flame" e in "So Be It", mentre stupisce con "Trouble", che si discosta da queste direttive tirando in ballo nomi differenti quali Accept e Riot.
La produzione è quella che ci si attende, polverosa, mancando per fortuna della fottutissima lucentezza finta che viene donata odiernamente a molti album del genere, incarna quindi ciò che la band rappresentava negli anni Ottanta: una buonissima promessa per l'heavy metal.
La Heaven & Hell Records ridando vita a questi vagiti iniziali degli Overlorde Sr ci ha fatto un bel regalo, adesso viene da domandarsi se la band non stia scrivendo materiale nuovo dato che sembra sia tuttora in attività. Chissà quindi che non arrivino più in là notizie su un debutto sulla lunghissima distanza.
Per ora non posso far altro che suggerire candidamente l'acquisto di "Medieval Metal Too", non è importante quanto sia fondamentale storicamente, è realmente importante come suona: alla grande!
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Gruppo: Omnihility
Titolo: Biogenesis
Anno: 2012
Provenienza: U.S.A.
Etichetta: Butchered Records / Sevared Records
Contatti: facebook.com/pages/Omnihility/226909030653774
Autore: Mourning
Tracklist
1. Biogenesis
2. Unsummoned
3. Torturous Insemination
4. Self Inflicted Rapture
5. Abcess Of Oblivion
6. Religion The Plague
7. Epoch Unending
8. Fractal Disinegration
9. Fate Beyond
10. Remnant 2012
DURATA: 45:23
Gli Omnihility sono una creatura brutalmente tecnica proveniente da Eugene in Oregon, la formazione composta da John Kurzejeski (voce), Dan "The Impaler" Rabago (chitarra), Jeremy Leishman (basso) e Armen Koroghliam (batteria), con quest'ultimo non più parte della band sostituito da Fred Tucker ma presente nel debutto, ha dato vita alla sua prima prova nel 2012.
Il disco intitolato "Biogenesis" è una mazzata che si rifà alla scuola sonora degli Origin e non disdegna sguardi al passato di gente come i Suffocation.
Il riffing è vorticoso, in alcune circostanze particolarmente spesso o oscuro, mentre in altre si apre inaspettatamente aumentando notevolmente lo stato d'enfasi interna ai brani, è uno scervellarsi che però non si nutre univocamente di elucubrazioni chitarristiche, lascia spazio alla violenza dura e pura fatta di hyperblastati, di cambi di tempo terremotanti e di una presenza vocale minacciosa che si coniuga con dedizione al lavoro di percussione dei compagni di squadra.
Il platter è una stilettata gelida, la sensazione di freddo che avvolge le tracce sembra perdurante. Le esposizioni violente insite in "Unsummoned" e "Self Inflicted Rapture", la malevolenza sprigionata da "Fractal Disintegration" e l'inatteso finale che vede Dan prodigarsi in una versione acustica scura e suadente in "Remnant 2012" sono parte di un processo in cui si inanellano dieci esecuzioni di alto livello, nelle quali la preparazione tecnica della band si pone a servizio, o per meglio dire diviene il tramite naturale, del carattere prestante ma ragionato in possesso degli Omnihility.
Sì, è vero, alle volte sembra proprio d'avere a che fare con passaggi e giri appartenenti alle realtà citate in cima al testo, è inevitabile cche quei grandi nomi abbiano un'influenza su chi è arrivato dopo, tuttavia "Biogenesis", al contrario di quanto accade con moltissimi album dello stesso tipo, riesce a mantenere intatta una sua identità, derivativa senza ombra di dubbio ma non costantemente incatenata.
Questo avviene grazie all'ottima prova fornita dal complesso strumentale, con Rabago in grande spolvero e con la prestazione di John dietro al microfono che non sfigurerebbe di certo se accostata a quella di growler rodatissimi della scena brutal/technical.
Cosa non mi è andato giù invece? La produzione non mi fa impazzire, da un lato si dimostra coerente con l'aspetto glaciale volutamente offerto dalla musica mantenendo fredda e scostante l'atmosfera, dall'altro un pizzico di brillantezza in più avrebbe reso ancor più giustizia al buonissimo debutto di questi americani, è un dettaglio, probabilmente soggettivissimo, che però mi sento di dover citare.
Un inizio di carriera che promette bene quello degli Omnihility e il supporto combinato della Butchered e della Sevared Records è lo step adatto per far sì che il nome abbia una distribuzione quantomeno degna in attesa di un salto di qualità, e sono sicuro che le carte in regola per farlo ci siano, che li potrebbe catapultare in roster di dimensione "big", avrei un po' di paura se si trattasse della Nuclear Blast ma sarebbe comunque una fortuna per i ragazzi.
Amate brutalità e tecnica? La band fa decisamente al caso vostro e un ascolto a "Biogenesis" dovreste proprio darlo.
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Gruppo: Obelyskkh
Titolo: White Lightnin'
Anno: 2012
Provenienza: Germania
Etichetta: Exile On Mainstream Records
Contatti: facebook.com/TheObelyskkhRitual
Autore: Mourning
Tracklist
1. The Enochian Keys
2. Elegy
3. The White Lightning
4. Mount Nysa
5. Amphetamine Animal
6. Abysmal Desert Cavern
7. Invocation To The Old Ones
DURATA: 01:08:36
Adoro farmi sfondare il cervello da onde psichedeliche che fuoriescono da calderoni doom/stoner, questi ultimi anni sono stati letteralmente una manna dal cielo, infatti è stata partorita tanta di quella roba micidiale da abbattere una colonna di elefanti. Ultimo, ma solo in ordine di tempo, è giunto sulla mia scrivania "White Lightnin'", secondo lavoro dei tedeschi Obelyskkh.
Si viene sfasciati ed elettrizzati, questi musicisti interpretano il genere con l'intenzione di renderne dipendente l'ascoltatore, è una vibrazione immensa e costante quella che si forma di passo in passo tra feedback, dimostrazioni ambientali caratterizzate da soundscape drone e una "monotonia" ciclica incantatrice. "Enochian Key", la traccia strumentale posta in apertura, sembra portare al collo un cartello con scritto: "se non sei in cerca di trip: cambia disco!".
Chi si attendesse le immense scanalature doom, una presenza vocale persistente o ritmiche varie si troverà spiazzato: "Elegy", dopo una partenza affine al più classico esempio del sound di tale matrice, si disperde in un cosmo fatto di chitarre che stridono, si ripetono e violentano l'atmosfera resa ancor più acida da una attitudine spacey simile a una collisione fra quel mondo e le sensazioni fangose prodotte da King Buzzo e soci; la titletrack invece pare galleggiare infinitamente in un oceano i cui colori sono smorti, gli assoli e l'ugola di A.D. apportano melodia al pezzo, affascinante, e i pensieri nel frattempo si sono dilatati e vanno diradandosi.
È uno stato di trance prolungato, è un rimanere in bilico tra la realtà e un viaggio che insistentemente sta radicando le sue scelte all'interno del cervello, questo è ciò che avviene percorrendo la tracklist. Intanto fa la sua apparizione "Mount Nysa", eccellente per incarnare le fantasie e le possibilità che vi si parano contro durante l'ascolto, con l'aggiunta di un riffone desertico sul finire che è davvero splendido.
Tocca quindi ad "Amphetamine Animal" stordire nuovamente l'ascoltatore e anche stavolta i Melvins ci mettono lo zampino per ciò che concerne il "leva e metti" delle chitarre, sembra di aver ingerito un camion di peyote in certi frangenti e il contrasto della voce incattivita è pari a una lama stridente che si fa breccia attraversando la nube psichedelica, incidendola chirurgicamente, è tutto molto bello, troppo bello.
Una sveglia ci giunge dalla corposa e animosa "Abysmal Desert Cavern" dove l'astio viene dapprima incamerato e successivamente pian piano rilasciato nell'etere ma è vana illusione, la rete che ci trattiene è ancora in questa dimensione priva di punti d'appoggio. In questa camera adimensionale riprende pieno possesso della scena con la mastodontica "Invocation To The Old Ones" nella quale troverete una canzone di circa quattro minuti "inscatolata" in una estesa sessione drone/ambient.
Il divertimento di metter su album come "White Lightnin'" sta nel dimenticare ciò che si ha attorno, nell'esserne totalmente rapiti e per far sì che ciò accada si deve dedicare assoluta attenzione al suo scorrere: ogni dettaglio, ogni suono che potrebbe sembrarvi insignificante diverrà utile alla vostra mente, assorbitene l'essenza da jam-session e la volontà impositiva. Gli Obeliskkh hanno prodotto un lavoro fantastico.
L'ospite Malte Siedel che presta la propria voce in "Mount Nysa" e "Invocation To The Old Ones", la produzione di Billy Anderson (uno che ha messo mano nei mondi di Neurosis, Sleep, Melvins, EyeHategod e High On Fire) e lo stupendo artwork evocativo, perfetto per inquadrare lo sconquasso emotivo capace di creare, sono le ciliegine sulla torta di un disco da avere.
La versione Lp non contiene "The Enochian Keys" e "Abysmal Desert Cavern", tuttavia viene fornito un codice per scaricarle e quindi poterne godere. Ho già detto che "White Lightnin'" è da avere? Sì? Beh, lo ripeto, comprate quest'album!
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Informazioni
Gruppi: Oprich / Piarevaracien / Chur
Titolo: Triunity
Anno: 2012
Provenienza: Russia / Bielorussia / Ucraina
Etichetta: Casus Belli Musica
Contatti: Oprich - Piarevaracien - Chur
Autore: Bosj
Tracklist
Oprich
1. Up The Rivers Of The North
2. The Volga
3. North The Boundless
Piarevaracien
4. My Autumn
5. Morning
6. Ashes
Chur
7. O There On The Mountain
8. Over The River, Through The Woods
9. O The Spring Is In A Field
DURATA: 43:52
 Torniamo in casa Casus Belli Musica, il che come d'abitudine significa parlare di band fortemente legate alla tradizione dell'est Europa. E mai come ora queste parole furono più vere.
Premetto che per tutto il corso dell'articolo utilizzerò nomi, titoli e più in generale caratteri dall'alfabeto latino per semplicità di fruizione, ma l'album, i caratteri di stampa e tutto il concept che vi ruota attorno sono stati interamente realizzati in cirillico, e ovviamente il cantato è completamente in lingua madre.
"Triunity" è l'espressione di un'idea particolarmente interessante, dal fine estremamente nobile: i tre gruppi coinvolti, autori di tre brani ciascuno, provengono da tre Paesi differenti, pur essendo strettamente accomunati dalle proprie radici culturali.
Dalla grande madre Russia abbiamo gli Oprich, act di Rybinsk il cui debutto (arrivato a ben dodici anni dalla formazione della band) potete trovare recensito sulle nostre pagine. Musicalmente parlando, quanto registrato su "Triunity" non si discosta dalla produzione principale della formazione: flauti, cantato in clean, toni mai eccessivamente violenti e occhio di riguardo per le melodie. Registrazione precisa e professionale, suoni convincenti e composizioni "di mestiere", ma ampiamente godibili.
Il corpo centrale del lavoro è invece riservato ai tre brani dei Piarevaracien, formazione sulla quale non posso che ammettere la mia ignoranza, poichè tutto il repertorio di mia conoscenza si riduce a quanto presente su questo split. Nella fattispecie, il gruppo di Minsk incide tre pezzi acustici, estremamente delicati e quasi (quasi) tendenti al neofolk più melodico. Anche qui troviamo flauti, clean vocals e melodie, ma rispetto ai precedenti Oprich, l'operato dei Bielorussi è molto diverso, più etereo, meno battagliero, più intimamente emotivo, raccolto e, perdonatemi il termine, meteoropatico. Sicuramente da approfondire in un contesto "autonomo" e meno confinato.
Le ultime tre tracce spettano infine ai Chur, formazione ucraina con due full lenght all'attivo e una vita artistica dedita (guarda un po') a flauti, melodie tradizionali e stavolta qualche chitarra timorosa. Del trittico di artisti, i Chur, o meglio Chur, visto che di recente il gruppo si è trasformato in one man band, è colui che meno riesce ad imprimere una propria personalità negli stilemi ormai ampiamente rodati del folk metal tradizionalistico dell'est. Un songwriting abbastanza anonimo e delle chitarre pressoché inutili (basse, relegate a poco più che comparse anche quando dovrebbero trascinare la struttura della canzone, complici a loro volta i volumi di registrazione non proprio irreprensibili) minano la gradevolezza dell'insieme.
Dal punto di vista della confezione, "Triunity" si presenta in un'elegante edizione limitata, con un booklet riccamente adornato da illustrazioni interne per ciascun gruppo, cercando quel fil rouge che vuole unire non solo l'esperienza musicale, ma anche e soprattutto culturale di tre rappresentanti di altrettante diverse nazioni, separate da confini politici, eppure accomunate da un sentimento di appartenenza agli stessi luoghi, alla stessa stirpe, dal retaggio degli stessi usi e costumi.
Un'iniziativa lodevole, che coglie il più profondo significato della musica: quello di trasmettere le emozioni del vissuto.
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Informazioni
Gruppo: Odium
Titolo: Beautiful Violence
Anno: 2012
Provenienza: Germania
Etichetta: Noisehead Records
Contatti: facebook.com/odium.thrashmetal
Autore: Mourning
Tracklist
1. Used To Be Me
2. Suffering
3. Abyss
4. A Better Part Of Me
5. Beautiful Violence
6. Loosing Control
7. No Regrets
8. No Limits
DURATA: 38:27
Il monicker Odium sarà stato utilizzato da almeno una ventina di band fra sciolte e in attività, di quelle che ancora sfornano dischi i thrasher tedeschi con la loro militanza ventennale all'interno della scena metal sono sicuramente fra le più vecchie. Da chi ha una certa esperienza ci si attenderebbero quindi anche la maturità e la consapevolezza dei mezzi in proprio possesso, doti che garantiscono ascolti piacevoli, purtroppo invece il nuovo "Beautiful Violence", sesto album della loro carriera e primo a non essere autoprodotto grazie al supporto dalla Noisehead Records, lascia parecchio a desiderare.
Dopo vari giri nel lettore risulta evidente quanto poco longevi siano i brani, le strutture particolarmente elementari ma non brillantissime nel songwriting si poggiano parecchio sulla capacità di sprigionare una discreta quantità di groove che non sempre però basta a salvare la baracca.
Gli episodi migliori del platter sono posti in apertura, l'opener "Used To Be" e i due successivi, la scatenata "Suffering" e la granitica "Abyss", in pratica racchiudono in sé ciò che gli Odium hanno da offrire e se la tracklist si fosse mantenuta su questi livelli di semplicità probabilmente il risultato sarebbe stato anche più che accettabile. Al contrario non è così, s'incrociano momenti nei quali non si capisce dove vogliano andare a parare: "A Better Part Of Me" è una semi-ballad? Nì. È un pezzo atmosferico? Vorrei comprendere cosa dovrebbe trasmettere, alla pochezza del brano inoltre si aggiunge l'inserimento insensato di cori femminili che tutto sono tranne che accattivanti.
"No Regrets" ti fa venir voglia di cambiare disco, le parti acustiche sono ok, così come il retrogusto agrodolce e la malinconia ma l'approccio vocale di Ralf proprio non va. Questo cantante o lo ami dalla prima volta che lo ascolti o non lo reggi, non possiede una timbrica che ti permetta di optare per via di mezzo.
Infine due pezzi come "Loosing Control" e la conclusiva "No Limits" nella loro pochezza comunque provano a cavar fuori il ragno dal buco, l'ultima almeno mette nuovamente sul piatto un po' di grinta risollevando un minimo la situazione.
"Beautiful Violence" è un'occasione mancata, peccato perché che i musicisti possano far meglio di così è evidente, inoltre la produzione fornita alle canzoni è convincente, eppure non basta, questo non è sufficiente a salvare la prestazione degli Odium che dovranno evitare in futuro le forzature e le ripetizioni che hanno dato forma a un disco poco appetibile, stavolta tocca rimandarli.
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