Informazioni
Gruppo: Wacht
Titolo: Indigen
Anno: 2013
Provenienza: Grigioni, Svizzera
Etichetta: Bergstolz
Contatti: bergstolz.ch
Autore: ticino1
Tracklist
1. Il Capricorn Solitari
2. Intellect Inflamà
3. Nos Privilegi
4. Engiadina Sur Tuot!
5. Indigen
6. Grischun Abandunà
7. Sbrais Sanza Sun
8. Güstizia, Per La Vardà
9. Fundà Sün Fö
10. Black Metal Über Alles
11. Epilog Engiadina
DURATA: 54:07
Quante volte vi ho già presentato lavori dei grigionesi Wacht? Neppure lo so. Dal 2006 a oggi ne è caduta di neve sui pizzi delle Alpi Retiche e tante sono le registrazioni uscite sotto l'egida del gruppo diretto dall'onnipresente Steynsberg. Sovente vi ho parlato di una certa costanza compositiva e d'esecuzione da disco a disco. Ora che cosa è cambiato?
Tanto per cominciare ho dovuto aprire il PDF del libretto per essere sicuro che si trattasse davvero di quei Wacht... I titoli e i testi sono ancora prevalentemente in reto romancio e i temi trattati sono quelli offerti dall'amata patria di Steynsberg, i Grigioni. L'intro, con il suo tocco "alpino", mi lascia un poco perplesso; non è la musica in sé che provoca questa sensazione, ma l'evoluzione che vi ha avuto luogo. L'altro ieri mi lamentavo di sentire troppe trame "burzumiane", mentre oggi le fasi ritmiche coprono la discografia basilare dei Bathory, ricombinandola sì con il black scandinavo classico, sfiorando però tocchi rock (qui potrei diventare becero e dire addirittura "post") per addentrarsi in frangenti più atmosferici o melodici che ricordano un poco il progetto Hatesworn, proveniente dalla stessa forgia romancia. Le prove che sostengono queste mie affermazioni le troverete comodamente ascoltando "Intellect Inflamà" e "Indigen", questi sono alcuni dei pezzi più vari presentati su questo disco, oppure la melanconica "Sbrais Sanza Sun" che dopo un inizio black tipico si trasforma progressivamente in una colata di resina. Notevole nel citato progresso compositivo è l'effetto provocato dal gioco fra due chitarre che seguono a volte frasi differenti e una batteria che sapientemente offre una solida base ritmica. Quasi me ne dimenticavo: ho criticato sovente la voce di Steynsberg, in questo lavoro però mi sembra che ci sia meno monotonia nel timbro e la combinazione con alcuni passaggi puliti, o addirittura femminili, sia ben riuscita, mescolandosi senza attriti nella trama d'insieme.
Perché sprecare tante parole? Secondo me i Wacht forniscono con "Indigen" il loro disco più riuscito finora. È pieno di varietà, fantasia e, malgrado non rappresenti l'invenzione dell'acqua calda, offre a te, ascoltatore esigente, oltre cinquanta minuti di musica pieni di passione e privi di noia. Attenzione: non è digeribile per i puristi! Potenziale? C'è: il futuro ci rivelerà se sarà sfruttato.
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Gruppo: Weaponizer
Titolo: Weapönizer
Anno: 2012
Provenienza: USA, Colorado
Etichetta: Autoprodotto
Contatti: weaponizer.bandcamp.com
Autore: ticino1
Tracklist
1. Tactical Plague
2. Warbastard
3. Spitfire
4. Human Sewer
5. Black Wings Of Flame
6. Threatener
7. I, Weaponizer
8. Pillars Of Disaster
9. Sodomy & Lust [cover Sodom]
DURATA: 27:02
Io sono cresciuto principalmente con il Death, ma la base l'ho ricevuta dal buon vecchio Thrash. Quello cattivo e rozzo è sempre stato uno dei miei preferiti, non per nulla il mio primo disco di quel genere è stato "Endless Pain" dei Kreator. Il Black invece l'ho vissuto solo come una visione effimera e non me ne sono interessato coscientemente più di quel tanto allora. Oggi mi godo ogni gruppo che mescola i due stili in maniera da lasciar sfogare il pubblico e penso che gli statunitensi Weaponizer adempiano in maniera egregia all'arduo compito.
Il quartetto si dedica con gran fervore al metallo veloce e trascinante, producendo scale che basilarmente richiamano la scuola di Lemmy, Venom, Hellhammer e soprattutto Possessed. La ritmica imperiosa e tagliente sfonda anche i timpani più robusti, il lavoro di batteria è maledettamente pulito e preciso, la voce è un sogno per ogni fanatico di puro odio violento e meschino. Ho una visione: vedo la massa di carne composta di un pubblico privato della propria volontà che si spacca le ossa al suono di "Warbastard"; nasi rotti e fronti squarciate sono il risultato di un pozzo brutale davanti al palco in cui vale solo la regola del "tutti contro tutti". Non finisce qui però, perché ogni feticista che gode vedendo il proprio sangue versato sarà esaltato dalla singolar tenzone nell'arena di "Black Wings Of Flames", che l'obbligherà a combattere secondo la regola per cui "solo il più forte sopravvive". Siete abbastanza robusti per affrontare coraggiosamente questo disco?
Ne sono sicuro: tutti quelli che hanno apprezzato i Vomitor si sentiranno bene con questi americani, anche se lavorano in maniera più pulita dei colleghi australiani. Solo un punto m'infastidisce… nonostante il disco duri nemmeno una mezz'ora scarsa, contiene una cover (lo ammetto: ben riuscita) di quasi cinque minuti. Peccato.
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Gruppo: Wizz Wizzard
Titolo: Tears From The Moon
Anno: 2013
Provenienza: Belgio
Etichetta: Rocksector Records
Contatti: facebook.com/wizz.wizzard.belgium
Autore: Mourning
Tracklist
1. Demons, Bad Witches
2. Six Feet Underground
3. Hidden Paradise
4. Tears From The Moon
5. Insanity
6. Vampires In The Valley
7. Crazy Wizzard [live]
8. Motorhead [live]
9. Reflections From Hell
10. Desire
DURATA: 47:27
Chi siano i Wizz Wizzard l'ho scoperto da poco: la formazione belga mi era totalmente sconosciuta prima che mi venisse recapitato il debutto "Tears From The Moon", edito per la Rocksector Records. Mi sono così imbattuto in una band sorta nel 2007 e che ha dato alle stampe un primo album rivolto a un pubblico ben specifico: gli amanti dell'heavy vecchia scuola, quello che ancora puzza piacevolmente di hard rock anni Settanta.
"Tears From The Moon" va sul semplice, la base difatti attinge dall'epoca d'oro dei Sabbath e primi Iron Maiden, prendendo qualcosa dei Saxon, Dio e della verace carica dei Motorhead; ciò è abbastanza evidente, tant'è che brani come l'apertura "Demons, Bad Witches", "Six Feet Underground", la titletrack e l'episodio live "Motorhead" bastano per comprendere quanto la passione e il modo di vivere la musica abbiano radici ben salde e devote al passato che ha scritto parte fondamentale della storia. Il gruppo se la cava bene, infilando un pezzo in stile power ballad quale potrebbe essere considerato "Hidden Paradise", uno che dona atmosfera "ozzyana" come "Vampires In The Valley" e un altro roccioso che mette in evidenza la prestazione dell'asse ritmico tipo "Insanity", dimostrando che si può produrre della musica soddisfacente, evitando di complicarsi la vita con chissà quali giri e controgiri.
Certamente l'approccio è un po' datato, ma questa scelta voluta fa sì che la proposta mantenga quel fascino retrò che la spinge lontano migliaia di anni luce dal mondo delle produzioni seriali odiernamente tanto in voga. C'è da dire inoltre che l'inserimento delle due tracce live poco prima della chiusura ha giocato a loro favore, poiché — non utilizzandole come bonus né riempitivi, ma come parte integrante della scaletta — sia la già chiamata in causa "Motorhead" che la convincente "Crazy Wizzard" anticipano, senza far perdere il passo e l'attenzione, la sostanziosa "Reflections From Hell" e la conclusiva "Desire" dallo spiccato comparto melodico.
I Wizz Wizzard chiamano a raccolta la vecchia guardia, a loro è dedicato "Tears From The Moon" ed è sempre a loro che suggerisco di ascoltarli, prendetevi del tempo e divertitevi.
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Gruppo: Walking Corpse Syndrome
Titolo: Alive In Desolation
Anno: 2013
Provenienza: U.S.A.
Etichetta: Autoprodotto
Contatti: facebook.com/walking.corpse.syndrome
Autore: Mourning
Tracklist
1. Minion
2. The Individualist
3. Walking Sacrifice
4. Pushing The Grey
5. Choke
6. Forsaken
7. Captive
8. Inhumanity
DURATA: 32:06
I Walking Corpse Syndrome sono una di quelle formazioni per cui vale ancora l'aggettivo "alternativo", poiché il sound del sestetto proveniente dal Montana ha acquisito una identità tale da evitare dispersioni o passaggi a vuoto nei brani, pur continuando a battere diversi territori sonori. Nel 2010 vi avevo presentato il loro secondo album "Narcissist", il 2013 invece porta il terzo lavoro intitolato "Alive In Desolation" che, oltre a un paio di novità a livello compositivo, ne fa segnalare alcune nella formazione, dato che mancano all'appello sia il cantante Michael Phlegm sia la tastierista Meredeath LaChryma.
Il cambio dietro al microfono non fa registrare nessun tipo di carenza o problema, Leif Winterrowd se la cava decisamente bene nell'alternare growl e fasi in scream. Le atmosfere gotiche e decadenti sono state decisamente messe di lato, la band difatti preferisce puntare su situazioni orrifiche e malsane (riscontrabili in "Pushing The Grey" e "Captive"), divenendo più aggressiva sino a sfiorare — o addirittura toccare — la spigolosità del death; si vedano la canzone d'apertura "Minion", particolarmente cattiva, la più equilibrata "Walking Sacrifice" e "Choke". Esistono comunque punti di contatto col passato, ma solo in sparuti casi, tramite le intrusioni del violino a cura del "professore" William Sludge in "Forsaken" e nella conclusiva "Inhumanity".
"Alive In Desolation" è un bel dischetto, si lascia ascoltare piacevolmente e si raggiunge la fine, con i Walking Corpse Syndrome che ripetono in coro in maniera ossessiva "False idol! False icon! False idol!", in un batter d'occhio, grazie a una durata contenuta che massimizza la fruibilità della prova, rendendola ancora più accessibile, ma tutt'altro che orecchiabile. Per questo album vale lo stesso discorso fatto per "Narcissist": gli amanti del metal inquadrato in precisi schemi d'appartenenza difficilmente se ne interesseranno; i restanti al contrario si troveranno a confrontarsi con una formazione ormai pienamente matura e che ha confezionato una terza uscita di buonissimo spessore. Non sottovalutatela.
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Gruppo: Wartime
Titolo: Solar Messiah
Anno: 2012
Provenienza: Bulgaria
Etichetta: Autoprodotto
Contatti: facebook.com/wartime.bg
Autore: Mourning
Tracklist
1. Dreams Of Pale
2. The Deepest Fear
3. Sanity
4. For One Moment In Time
5. Memories
6. Inner Sight
7. Endless Horizon
8. God's Sun Hours
9. Solar Messiah
10. The Day Of No Return
11. Palette Of Grey
DURATA: 49:18
I bulgari Wartime erano apparsi sul nostro sito nel 2011 con la recensione che il sottoscritto curò per la loro prima uscita intitolata "Against Destiny". Sul finire del 2012 la formazione — che nel frattempo ha perso Chewbacca alla seconda chitarra, sostituito da Nikola Hristov (in precedenza "ospite") — ha modificato il tiro: pur continuando a suonare un thrash metal tecnico, melodico e ancora in parte eccessivamente legato alle proprie influenze, ha cambiato le fonti di ispirazione, passando da Coroner e Mekong Delta a un suono più moderno a cavallo fra Nevermore e Communic, quindi ancora più "power" rispetto al passato; a ciò si aggiunge uno strato atmosferico malinconico talvolta esageratamente strabordante.
In verità, dopo che ebbi ascoltato il debutto, ero quasi certo che questi musicisti non avrebbero deluso le mie aspettative, non immaginavo però una sterzata così netta nello stile, dove la componente melodica e la ricerca del ritornello che ti rimane in testa sono divenute molto importanti, lo noterete sia in "The Deepest Fear" che in "For One Moment In Time". Questo concentrarsi sul lato emotivo più che sull'impatto è palese anche nell'uso del violino (suonato da Panayot Solakov) che adorna lo strumentale "Sanity", oltre che nell'incipit acustico e nella prestazione particolarmente intensa dietro al microfono del chitarrista e cantante Stan "Stumpy" Stancheff in "Memories"; si tratta comunque soltanto di alcuni episodi riscontrabili una volta inserito il cd nel lettore.
La vera pecca che s'insinua internamente a questo lavoro è il pregio stesso che lo rende interessante, parlo proprio di quel tentativo continuo di tirare in ballo le emozioni: alle volte c'è una certa esagerazione, con i toni dolciastri che tendono a emanare un grigiore sin troppo pacato che pare ottenere l'effetto contrario di un appiattimento; per spezzarlo è necessario quindi sfoderare la voce in growl, al fine di rendere più aggressive un paio di circostanze, e inserire assoli mai troppo ingombranti e sempre ben posizionati, alcuni dei quali vengono eseguiti dall'ultimo entrato Hristov (in "Dreams Of Pale" ed "Endless Horizon"); oppure per diluirlo vengono aggiunte le tastiere che forniscono al sound profondità e ricercatezza maggiori, ad esempio in "Solar Messiah", grazie a Zhivko Koeve.
Considerando i valori e i difetti del lavoro dei Wartime, viene da chiedersi perché un disco ben prodotto, composto e suonato debba rimanere privo di un'etichetta, mentre gli ultimi arrivati appena usciti dalla sala prove e senza uno straccio d'idea personale entrino a far parte di roster blasonati come quello della Napalm Records o della Massacre Records: la risposta plausibile a tale dubbio purtroppo la conosciamo o la possiamo comunque immaginare un po' tutti.
Inutile dilungarsi ulteriormente, dalla descrizione avrete inteso a chi possa risultare interessante "Solar Messiah": non esitate, date spazio a questa band.
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Gruppo: Wongraven
Titolo: Fjelltronen
Anno: 1995
Provenienza: Norvegia
Etichetta: Moonfog
Contatti: myspace.com/wongravenmusic
Autore: Akh.
Tracklist
1. Det Var En Gang Et Menneske
2. Over Ødemark
3. Opp Under Fjellet Toner En Sang
4. Tiden Er En Stenlagt Grav
5. Fra Fjelltronen
DURATA: 32:37
Siamo alla metà degli anni '90, la Norvegia è divenuta la nuova terra promessa dell'estremismo Black Metal e cosa c'è di meglio di trenta minuti di Dark Ambient folkloristico per dar vita a un gioiello che ci faccia rivivere la forza, l'orgoglio e la natura indomabile del paese dei fiordi? La risposta sta in un'unica parola: Wongraven. Satyr tira fuori dal cilindro cinque episodi che definire solenni, cupi, epici, marziali ed esponenzialmente vibranti è riduttivo, insomma tira fuori un Capolavoro!
Voci di sottofondo ispessiscono aurore sonore superbe e timpani di guerra narrano di marce montane su per ghiacciai e ripide discese verso valle, dove riverberano fulgidi lampi di luci solari contrapposti a fitte e lunghe notti invernali, nelle quali le sferzate del gelo sono parte stessa del territorio. Chitarre acustiche delicate si fondono alle chitarre sintetizzate e linee di basso toccanti arrivano a emozionarci in posti profondi dell'anima, rivelando l'indole selvaggia della Scandinavia. Le piccole perle di Ihsanh al pianoforte passano così quasi in secondo piano rispetto al contesto generale e alla forza espressiva dell'atmosfera intrinsecamente medievale che permea tutto il disco. Ogni brano è un'opera magnifica che impersona lo spirito della madre patria.
"Fjelltronen" è un album che si staglia al di sopra degli stessi artisti che lo hanno reso vivo e che fin da subito ne diviene pietra miliare. Inchiniamoci di fronte alla grandezza della terra di Norvegia, inchiniamoci di fronte a questo Wongraven.
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Gruppo: With Burning Contempt
Titolo: Red Visions
Anno: 2013
Provenienza: Stati Uniti
Etichetta: Autoprodotto
Contatti: withburningcontempt.bandcamp.com
Autore: ticino1
Tracklist
1. Red Visions
2. Defaced
3. We Are Nothing
4. Untrue Weapons
DURATA: 16:52
Più il tempo passa, più difficile diventa comprendere la coerenza del discorso riguardo la vecchia e la nuova scuola metallica; nella moda non interessa a nessuno che i "POPpanti" girino oggi con le Nike alte come facevo io da metallaro alla fine degli Ottanta... Siamo nel 2013 e appaiono ancora formazioni che si lasciano spudoratamente influenzare da gruppi come gli Hellhammer.
La band svizzera ha colpito particolarmente gli ascoltatori statunitensi, soprattutto dopo il cambiamento di nome e di stile. Non meraviglia dunque più di quel tanto se proprio una formazione di culto come quella zurighese riesca ancora a mobilitare le masse metalliche, anche in Virginia. Da lì ci attaccano i With Burning Contempt, composti da Tim Gutierrez e David Atkinson.
La loro musica è chiaramente connessa ai primi anni degli Ottanta e vive di scale rozze miste a D-beat. Questo EP di quattro tracce sembra mostrare al suo interno una piccola evoluzione; le prime due piste sono molto legate agli Hellhammer di Tom Warrior, anche se sono un poco più variegate dell'originale, mentre le seconde sembrano sfruttare i favori di una macchina del tempo per presentarsi in veste "più moderna" e con scale molto vivaci. "We Are Nothing" è una canzone lineare, diretta e senza compromessi (esagero, alla Darkthrone della fase media) e che in concerto provocherebbe non poche vittime; un ritmo sostenuto e un ritornello di chitarra accattivante sono gli ingredienti adorati da ogni metallaro. "Untrue Weapons" invece è proprio un inno ai norvegesi del periodo "The Cult Is Alive".
Lo so. Certi paragoni possono essere fonte di discussioni. Sapete allora che farete? Muoverete i vostri ditini sulla tastiera e sul "topolino", poi cliccherete sul sito del gruppo per ascoltare!
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Gruppo: Way To End
Titolo: Various Shades Of Black
Anno: 2013
Provenienza: Francia
Etichetta: Les Acteurs De L'Ombre Productions
Contatti: facebook.com/waytoend
Autore: Mourning
Tracklist
1. Sous Les Rangs
2. L'Apprenti
3. Evolution Fictive
4. Vain
5. Aganippe
6. La figure Dansante De L'Incompréhension
7. A Mon Ombre
8. Au Fond D'un Verre De Poussière
9. Ixtab
10. La Ronde Des Muses Fânées
11. Various Shades Of Black
DURATA: 50:42
I Way To End sono una della tante formazioni delle quali avevo sentito parlare bene, ma che non avevo ancora avuto occasione di ascoltare. A dirla proprio tutta fra un casino e l'altro, un po' per mancanza di tempo e di memoria, non ho ancora reperito il debutto "Desecrated Internal Journey" ed è quindi direttamente con il secondo "Various Shades Of Black" che ho avuto modo di entrare in contatto con la loro musica.
La formazione è rimasta quasi del tutto inalterata nel tempo, con un'unica variazione, parlo del cambio di bassista che ha visto Hzxllprkwx uscire e Vaerohn (mente dei Pensées Nocturnes, membro dei Valhôll ed ex dei Profundae Libidines, tutte realtà che troverete recensite sul nostro sito) entrare a far parte della band. Lo scenario creato dalle undici composizioni è decadente, un misto fra follia, disincanto, rabbia e disperazione. Le emozioni si fondono e scompongono, si alternano e convivono, apparendo nitide e impositorie, ma capaci di dissolversi, lasciando campo libero a intrusioni inaspettate; in questo caso l'utilizzo di uno strumento straniante e alienante come il theremin è azzeccatissimo per garantire proprio a quei ritagli di spazio un fascino che pur essendo oscuro acquista una lucentezza spettrale spiazzante.
Il libretto riporta il nome di Hazard (chitarra, voce, theremin e programming) quale compositore unico dei testi e della musica. L'artista ha fatto un buonissimo lavoro, i pezzi infatti sono vari (per alcuni dettagli nomi quali Arcturus, Vulture Industries e Borknagar potrebbero anche venirvi in mente), conditi da aperture acustiche e intrusioni jazz non così velate e dall'atmosfera molto suadente. A mio avviso inoltre hanno risentito positivamente della presenza di Vaerohn, seppur non in maniera invasiva né lesiva; ascoltando i brani se ne ha la netta impressione, sia quando il suono diviene più espressivo ed estremo che nei frangenti maggiormente virtuosi e cantilenanti .
In "Various Shades Of Black" è stupendo il modo in cui il cantato pulito partecipa all'evolversi delle canzoni, ad esempio i cori di "Mon Ombre" possiedono una fierezza degna dell'incanto degli Ulver. "Au Fond D'Un Verre De Poussière" dal canto suo talvolta emana un sentore epico, mentre "Evolution Fictive" e "La Figure Dansante De L'Incompréhension" hanno un'impostazione avvolgente intrigante. Insomma non ci sono riempitivi né vuoti, è tutto da gustare.
È doveroso poi dedicare un po' di attenzione anche alle ottime prestazioni fornite dal batterista Decay, bravo sia negli assalti sia a rendere dinamiche e cattive le ritmiche, e da Rust, l'altro chitarrista, che insieme a Vaerohn supporta con la voce l'operato di Hazard, la cui ugola non urla disperatamente, preferendo uno stile che sfrutta tonalità medie lamentose e trascinate.
I Way To End hanno dato vita a un album stimolante e che a ogni giro nello stereo lascia scoprire un pezzettino di sé in più, bisogna quindi avere la pazienza e la voglia di ascoltare e riascoltare, anche se sono sicuro che agli appassionati di tali sonorità già al primo passaggio nel lettore arriveranno all'orecchio valide motivazioni per l'approfondimento. Altro centro per Les Acteurs De l'Ombre Productions? Direi di sì. Il portafoglio non ringrazia, le nostre collezioni sì.
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Gruppo: When Icarus Fall
Titolo: Aegean
Anno: 2012
Provenienza: Svizzera
Etichetta: Headstrong Music/Season Of Mist
Contatti: facebook.com/whenicarusfalls
Autore: Mourning
Tracklist
1.A Step Further
2. Aegean
3. Acheron - Eumenides
4. The Asphodel Meadows Part. 1
5. What We Know Thus Far (An Inner Journey)
6. Tears Of Daedalus
7. Hades
DURATA: 44:02
Per il sottoscritto il territorio svizzero continua a rappresentare fonte di costante sorpresa. Questa piccola nazione infatti sforna band in continuazione, ma soprattutto da voce a gruppi che possiedono delle buone se non ottime qualità compositive e comunicative, specialmente il filone "post" possiede una fucina di talenti ragguardevole, in tanti li avrete anche visti passare sul nostro sito e citando un nome a caso potrei farvi l'esempio dei Kehlvin.
I When Icarus Fall, gruppo del quale sto per scrivere, provengono da Losanna e si vanno a inserire in tale panorama. Il quintetto è in giro dal 2007, ha rilasciato nel 2009 l'ep "Over The Frozen Seas" e tre anni più tardi, nel 2012, ha dato vita al primo album "Aegean", un lavoro che risente delle influenze di numi tutelari come Neurosis, Cult Of Luna, Amenra e The Ocean e che proprio prendendo spunto da quei grandi si sbraccia per trovare spazio in una dimensione musicale divenuta sempre più affollata e competitiva.
Il disco è intrigante per due aspetti, il primo riguarda la scelta del concept tutt'altro che leggero, di cui vi copio direttamente la descrizione presente sul Bandcamp degli elvetici: "AEGEAN is based on the work of Elisabeth Kübler-Ross, a famous psychiatrist who described the five stages of dying: denial, anger, bargaining, depression and acceptance; five steps defining the atmosphere of the five main songs of the album". Capirete quindi che prendere in considerazione l'evoluzione in corso di una vita che riconosce pian piano il suo declino, o in alternativa l'elaborazione di un lutto (in entrambi i casi è possibile usare tale metodo), affiancandola poi con soggetti di stampo mitologico che danno un senso alle tracce non renda proprio semplice il tragitto. Un esempio è la figura di Dedalo, personaggio noto per la costruzione del famoso labirinto di Creta, nonché padre di Icaro, sconvolto dalla morte del figlio dopo il tragico volo finito male in "Tears Of Daedalus". Il secondo concerne la chiave di volta atmosferica: era chiaro che data la tematica scelta sarebbe dovuta essere per forza di ampio respiro e sotto questo aspetto la formazione ha dato prova di riuscire a creare dei brani che non solo rispecchiassero in maniera formale i canoni del genere, ma garantissero quel passaggio di stato ambientale necessario ai vari "step" per essere percepito dall'ascoltatore. Noterete infatti come siano in grado di far collimare all'interno della proposta malinconia e sentori epici quanto intensità, monoliticità e quiete esasperata, il finire della titletrack e "Hades" sono soltanto una delle due facce di una medaglia che mette in mostra anche la propria vulnerabilità nello strumentale "The Asphodel Meadows Part. 1". È un chiudersi e aprirsi che fa leva sulle emozioni, infoltendosi di zone grigie.
"Aegean" va vissuto cercando di coglierne le sfaccettature, provando a immedesimarsi nell'animo combattuto che lo caratterizza e che accoppiato a una prestazione complessiva del gruppo particolarmente valida ne fa un disco che gli amanti di questo mondo dovrebbero quantomeno conoscere, pertanto non perdetevi l'occasione d'incrociare i When Icarus Fall.
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Gruppo: White Spirit
Titolo: White Spirit
Anno: 1980
Provenienza: Regno Unito
Etichetta: MCA
Contatti: myspace.com/whitespirit
Autore: ticino1
Tracklist
1. Midnight Chaser
2. Red Skies
3. High Upon High
4. Way Of The Kings
5. No Reprieve
6. Don't Be Fooled
7. Fool For the Gods
DURATA: 39:47
Questa recensione fa parte dell'articolo intitolato "New Wave Of British Heavy Metal - Una Retrospettiva".
 Vi ricordate degli Anni Settanta, dei Deep Purple e delle tastiere di John Lord? Sì? Credo allora che i White Spirit siano pane per i vostri denti. La formazione, nata nel 1975 sulla costa del nord-ovest inglese, visse abbastanza a lungo per pubblicare alcune demo, split e un LP.
L'ascoltatore noterà subito come le scale siano moderne per l'epoca e rappresentino così quello che ci si aspettava da un gruppo metal. Presto fa capolino la tastiera con alcuni passaggi solisti lunghi che lasciano quasi dimenticare quelli di chitarra. Sentirete tocchi dei Deep, dei Genesis e di altri grandi. Il "miscuglio" degli strumenti, voce compresa, è molto omogeneo e affiatato. "High Upon High" è un pezzo piuttosto tranquillo che mantiene comunque in movimento l'uditorio. Pure qui si alternano gli assoli di chitarra e di tastiera in modo assolutamente armonico e piacevole. I musicisti fra voi scopriranno parecchie parti da studiare.
I White Spirit erano senza dubbio un quintetto pieno di talento che avrebbe meritato più attenzione dopo questo disco. Ci si pone la solita domanda: troppo progressivi?
Graeme Crallan, batterista che militò anche nei Tank, morì nel 2008 a causa delle ferite riportate durante una caduta. Pace all'anima sua.
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Gruppo: Warckon
Titolo: The Madman's Lullaby
Anno: 2013
Provenienza: Belgio
Etichetta: Emanes Metal Records
Contatti: facebook.com/Warckon
Autore: Mourning
Tracklist
1. As The Death Knell Dolls
2. The Madman's Lullaby
3. Trapped
4. After The Noise
5. Shattered Illusions
6. Lord Of Lunacy
7. Salvation
8. The Tower
9. Path To The Gallows
10. Back Against The Wall
DURATA: 45:19
L'etichetta transalpina Emanes Metal si sta dando parecchio da fare in ambito thrash e ormai abbiamo ospitato qui su Aristocrazia parecchi suoi gruppi, come ad esempio i Gae Bolga e gli Infinite Translation. A quanto pare i francesi stanno continuando a sfornare uscite del genere, stavolta ripescando dal passato recentissimo. È stata data nuova vita infatti al debutto dei belgi Warckon intitolato "The Madman's Lullaby". Il disco, che era stato rilasciato nel 2011 tramite autoproduzione, in questa seconda veste è fornito di una copertina differente, seppur per un paio di dettagli ricollegabile a quella originale.
Neanche a dirlo si tratta dell'ennesima prova che alimenta il revival del periodo fondamentale di questo mondo. Gli Anni Ottanta e i primissimi Anni Novanta sono il punto di riferimento per ciò che riguarda l'aspetto temporale, mentre le influenze sonore attingono da band quali Exodus, Testament, Megadeth e Annihilator. La band di Jeff Waters diviene particolarmente importante all'interno del sound, a causa delle svariate intrusioni di chitarra pulita: le due strumentali "As The Death Knell Dolls" (in apertura) e "Salvation" (in fase pre-finale) della scaletta ne sono esempi lampanti, ai quali è possibile aggiungere la sezione centrale di "After The Noise", per lo sviluppo in chiave solistica dei due chitarristi Wouter Langhendries e Jonas Bergmans.
La compagine belga, pur non utilizzando la velocità dirompente e i riff affilati a mo' di rasoio in qualità di armi principali, non ha comunque messo da parte la cattiveria e quel pizzico d'impetuosità che servono a far tenere la guardia a chi ascolta. I brani si animano improvvisamente, con la titletrack e "Path To The Gallows" capaci di mettere in mostra i denti aguzzi e pronti a far male, mentre "Trapped" e "Lord Of Lunacy" fanno intravedere la presenza, seppur minima rispetto a quella esposta nei lavori di molti loro colleghi, di sonorità "crossover".
"The Madman's Lullaby" — nonostante possieda qualche episodio meno convincente, ma non così tanto da poterlo definire un riempitivo — si difende bene e a quanto sembra i Warckon stanno già lavorando a pieno ritmo per dare alle stampe il suo successore. Non dovremmo quindi attendere più di tanto per avere la riprova che questi musicisti possono dire la loro all'interno di un panorama che considerare saturo è un eufemismo. Insomma provate a condividere un po' del vostro tempo con i belgi e poi traete le vostre conclusioni, dal canto mio posso assicurarvi che se amate il thrash un album simile non potrà di certo dispiacervi.
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Gruppo: Wolfhetan
Titolo: Was Der Tag Nicht Ahnt
Anno: 2012
Provenienza: Germania
Etichetta: Autoprodotto
Contatti: facebook.com/wolfhetan.band
Autore: Mourning
Tracklist
1. ...In Die Stille Der Zeit
2. Abschied
3. Volkommenheit
4. Eispalast
5. ...Was Der Tag Nicht Ahnt
6. Tagtraum
7. Ankunft
DURATA: 01:12:43
Se il secondo album dei Wolfhetan mi fosse arrivato con un po' d'anticipo, probabilmente li avreste visti citati nella top five di fine 2012. L'anno passato del resto ha rilasciato un bel po' di lavori veramente validi, contrastando il pensiero dei detrattori che vedono una scena metal appiattitasi col tempo; ciò è forse vero per alcuni generi, ma non è una regola assoluta.
"Was Der Tag Nicht Ahnt" giunge a sei anni di distanza dall'uscita del debutto "Entrückung" e per chi non avesse ancora incrociato questa creatura teutonica, sin da ora posso affermare senza mezzi termini che si tratta di una delle migliori band di black atmosferico-pagano che ci sono in circolazione. L'abilità di tramutare il presente in una dimensione naturalistica priva di confine e al di fuori dal flusso temporale con il quale conviviamo è a dir poco sbalorditiva, ma ciò che più conta, almeno per il sottoscritto, è che il loro lavoro soddisfa a 360 gradi.
Tutti gli aspetti da tenere in considerazione, compreso quello visivo, viaggiano all'unisono in un'unica direzione, un mondo nel quale l'essenza dell'essere rurale si fonde con il misticismo, nel quale la crudezza del black metal primigenio si fonde con la delicatezza delle aperture folk e si disperde nelle ampie fughe ambientali dal gusto talvolta tendente al post. È un crocevia di sentori disparati, eppure talmente affini da poter convivere ed esprimersi privi di alcuna difficoltà.
Qualcuno notando il numero ristretto di tracce e una durata così consistente, in effetti ben cinque dei sette brani contenuti nel disco superano il traguardo dei dieci minuti, potrebbe immaginare che una lunghezza eccessiva possa essere conduttrice di fasi di stanca o momenti scialbi, invece ciò non accade. La prestazione compositiva è fantastica e curata sotto ogni minimo dettaglio, in modo che ogni singolo episodio contenga una dote caratteriale propria, rendendosi quindi distinguibile per irruenza o confortante trasporto, per il riffato duro e aggressivo o contrariamente per la partecipazione delicata e lussureggiante delle sezioni acustiche, per l'utilizzo ponderato che viene fatto dello scream, della voce pulita e dei frangenti corali. I motivi per i quali diviene difficoltoso dare priorità e segnalare una singola canzone piuttosto che un'altra sono molteplici e riconducibili all'alto livello qualitativo fornito alla forma e al contenuto del disco.
La produzione poi gioca un ruolo a dir poco fondamentale in "Was Der Tag Nicht Ahnt", è innegabile che sia stata una mossa indovinata optare per scelte che mantenessero intatta la freschezza della proposta, donando così una corposità rude; tra le altre cose è vero che si tratta di una lavorazione "cruda" del sound, tuttavia l'intelleggibilità è ottima sia per quanto concerne il singolo strumento, veramente bello il suono del basso che dal canto suo si fa notare grazie a un'ottima prova in sede di rifinitura, sia per quanto riguarda il complesso, non c'è infatti una singola emozione che trovi ostruita la via dalla quale fuoriuscire.
La confezione Dvd / A5 che racchiude il disco è stupenda, le variazioni cromatiche della copertina sono intense, i rilievi dorati finissimi e il libretto di sedici pagine incluso (al cui interno sono raffigurati una serie di paesaggi, non fotografie bensì dipinti) vi saranno di supporto per intraprendere un magnifico itinerario d'esplorazione, nel quale sarà importante immedesimarsi, liberarsi dalle àncore grigie della routine giornaliera, lasciando che siano le note dei Wolfhetan a modellare la strada sulla quale poggiare i vostri passi.
Avete voglia di sognare? State cercando disperatamente un lavoro pagan che vi faccia entusiasmare? Siete bramosi di possedere una vera opera d'arte? A tutti e tre i quesiti la risposta è unica e ha per titolo "Was Der Tag Nicht Ahnt", un gioiello che deve entrare a far parte delle vostre collezioni.
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Informazioni
Gruppo: Wither
Titolo: Necropolis
Anno: 2012
Provenienza: Australia
Etichetta: Aurora Australis Records
Contatti: aurora-australis.com.au
Autore: Mourning
Tracklist
1. Sonar Sphere
2. Chromatic
3. Lament
4. Damange & Loss
5. Cosmos
6. Seeming
7. Lost
8. Transpression
DURATA: 42:53
La creatura australiana degli Wither si era messa in evidenza alcuni anni fa per la sua partecipazione a uno split in compagnia dei tedeschi Worship, cui seguì l'uscita dell'ep omonimo, poi a distanza di quattro anni da quest'ultimo hanno dato alla luce il debutto "Necropolis".
Il duo composto da Doom (batteria, basso e voce) e Abysmal (chitarra e voce) si esprime affidandosi a sonorità cupe, darkeggianti e inclini a una ricerca malinconica costante.
Si presentano con un sound non innovativo, ma alquanto particolare, infatti affiorano: le presenze classiche dei Katatonia che furono; atteggiamenti vagamente psichedelici che potrebbe rimandare alle soluzioni intraprese nell'evoluzione della band di Johan Edlund, i Tiamat; le pulsioni e le emozioni del dark alla Sister Of Mercy; la sensazione di straniamento e desolazione lucida degli Ankhagram. Citando Adriano Celentano direi che è una "carezza in un pugno" ciò che gli artisti hanno racchiuso internamente ai brani.
"Necropolis" è un album dalle strutture volutamente elementari, fatto di progressioni semplici e nel quale ogni singolo attimo diviene significativo, perché pur amando il ripetersi cliclico — come del resto spesso avviene nelle prove "estreme" del filone doomico — muta in corsa la sua natura in direzione di lidi blackeggianti, di assuefazioni droniche, di suoni rock o tendenti a fasciare l'udito dell'ascoltatore con veli ambient, manifestandosi quindi con assiduità per ciò che è: un'anima divisa fra la pena e il desiderio sepolto di speranza che nutre il suo fascino maestoso, esposto in maniera spettacolare in "Transpession", con flebili emanazioni di luce, cosa che sembra avvenire in "Seeming".
Durante l'ascolto sono pochi i frangenti nei quali si percepisce un irrigidimento e una concentrazione voluta di sensazioni funeree, "Lament" è la traccia che perlopiù le racchiude, mentre il fluttuare grigio e melancolico si espande in episodi come "Sonar Sphere" e la morbida "Cosmos", dove echeggia il cantato pulito che rafforza l'attrazione creata da un impatto atmosferico scarno ma funzionale.
Gli Wither possono appassionare o lasciare totalmente indifferenti, la pecca più grande riscontrabile all'interno di "Necropolis" è difatti una mancanza di coerenza e questa sua volubilità tanto piacevole di riflesso lascia intravedere che nel songwriting qualcosa da sistemare qua e là c'è, almeno per dare una visione complessiva maggiormente definita, evitando che il saltare di palo in frasca sleghi emotivamente l'ascoltatore. Siamo comunque di fronte a un debutto affascinante, questi australiani si confermano dei buoni artisti e pertanto sarebbe giusto seguirli anche per vedere dove andranno a parare in futuro.
Per ora ciò che vi consiglio è di farvi tenere compagnia dalla loro uscita, una volta entrati in contatto potrete ponderarne o meno l'acquisto e avere risposte che né le parole né la scrittura possono darvi.
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Gruppo: World Of Metal And Rust
Titolo: Industrial Noir
Anno: 2013
Provenienza: Oregon, U.S.A.
Etichetta: Depressive Illusions Records
Contatti: worldofmetalandrust.blogspot.it - worldofmetalandrust.bandcamp.com
Autore: Insanity
Tracklist
1. Misanthropy
2. World Of Rust
3. Mechanical Discordance
4. Industrial Noir I
5. Industrial Noir II
6. The Abyss
7. Barbed Wire Misery
8. Mechanical Mutilation
9. World Of Mystery
10. Labyrinth Of Concrete
11. Lurking In Shadows
12. Mechanical Melancholy
13. Industrial Noir III
14. World Of Metal
15. World Of Fog
DURATA: 1:06:38
 Quanti dei nostri lettori sognano un mondo fatto solo di metallo? Tanti, immagino. Spero non sia un problema se ci fosse anche un po' di ruggine. Ma, soprattutto, spero non sia un problema se ciò di cui sto per parlarvi ha ben poco a che fare con il panorama Metal.
World Of Metal And Rust è in realtà una nostra vecchia conoscenza, l'uomo dietro questo progetto passò già sulle pagine di Aristocrazia con il suo vecchio pseudonimo Mara (con "Inner Ugliness" e "Sanity Collapsing"), qualcosa però è cambiato da allora: se prima i nostri timpani venivano torturati (in senso buono) da un Black Metal pesantemente intriso di Dark Ambient, Drone e Industrial, ora il lato atmosferico è il protagonista assoluto della musica proposta, lasciando che di nero ci siano solo le atmosfere ricreate. L'approccio è minimalista, forse anche troppo in alcuni frangenti, le melodie (quando presenti) sono semplici e ripetute fino allo sfinimento suonando martellanti e ossessive, complice anche la scelta dei synth dai suoni torbidi e spettrali come nella lunga "Mechanical Discordance". Il disco riesce comunque a scorrere grazie ad una discreta varietà ottenuta attraverso diverse strade: la batteria presente in alcuni episodi a dare un ritmo alle prime due "Industrial Noir" e a "Labyrinth Of Concrete", una traccia in cui è un malinconico pianoforte a fare da guida ("Mechanical Melancholy"), le sensazioni che cambiano in continuazione di brano in brano dalla folle "Mechanical Mutilation" alla buia e umida "The Abyss", dall'industriale "World Of Metal" all'inquietante "World Of Fog", e non finisce qui.
Troviamo inoltre un uso molto ampio dei sample, spesso sfruttati come sezione ritmica o addirittura a supportare le melodie, purtroppo però è in questa caratteristica che risiede uno dei principali problemi del disco: i suoni andrebbero elaborati con più cura, si sente fin troppo lo stacco tra un campione e l'altro, l'opener "Misanthropy" ad esempio perde molta efficacia a causa di ciò. La sensazione è che si sia data poca importanza ad aspetti "formali" favorendo il lato compositivo, ma in un lavoro di oltre un'ora sono anche queste cose a rendere l'ascolto meno pesante; lo scarso uso degli effetti di fade-in e fade-out (e non solo) sia all'inizio e alla fine dei brani, sia al loro interno, è un'altra questione da tenere in considerazione: ci sono infatti cambiamenti troppo bruschi (i finali di "World Of Rust" e "Industrial Noir I") che rischiano di creare confusione nell'ascoltatore.
La classica frase "è bravo, ma non si applica" che molti di noi si sono sentiti dire ai tempi della scuola sembra adattarsi perfettamente alla situazione: da questo album e da quelli che conosco pubblicati sotto il nome Mara ho sempre intravisto un potenziale che ancora non è riuscito ad esplodere, la musica creata da questo americano è sicuramente gradevole, tuttavia impegnandosi e limando i difetti esposti sopra potrebbe dare ancora di più; a maggior ragione, vista la direzione intrapresa con questo lavoro, è diventato importante lavorare su certi aspetti. Chi avesse seguito il precedente progetto può dare un ascolto anche a questa nuova realtà, sperando che in futuro riesca a sfruttare al massimo le proprie capacità.
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Gruppo: Well Of Souls
Titolo: Sorrow My Name
Anno: 2012
Provenienza: U.S.A.
Etichetta: Brainticket Records
Contatti: facebook.com/wellofsoulsdoom
Autore: Mourning
Tracklist:
1. Sorrow My Name
2. Forsaken
3. The Pain's Not Forgotten
4. As I Die
5. Sanity's Lie
6. Ashes Of Despair
7. A Dark Soul's Destiny
DURATA: 51:12
Essere tradizionali in certi ambiti va davvero controtendenza, il panorama doom in questi ultimi anni ha avuto un'esplosione pazzesca sia in termini di notorietà metallica sia per il numero di influenze esterne che vi si sono riversate all'interno, eppure se andaste a ricercare una schiera di band definibili "defender" del sound epico, allora rimarreste straniti: infatti sono pochissime rispetto alla mole di uscite annuali, per fortuna ogni tanto qualcuno rientra nel giro e rimpolpa le fila.
Il nome statunitense Well Of Souls, da non confondere con gli omonimi di Chicago, ai più attenti non risulterà nuovo, la formazione di Houston in Texas è attiva dall'ormai lontano 1997 e il loro debutto nel 2003 fu una piacevole e gradita sorpresa. Sono trascorsi ben nove anni, tre ex elementi della band hanno dato vita ai Project Armageddon, gruppo del quale troverete le recensioni nel listone, e finalmente il 2012 ci ha consegnato il secondo capitolo discografico "Sorrow My Name", pubblicato tramite Brainticket Records del signor John Perez (Solitude Aeturnus ed ex Rotting Corpse).
Vi attendete chissà quale novità? Non continuate a leggere. Pensate che i "mischioni" post-black-death-sludge e così via siano la nuova frontiera della suddetta scena? Quest'album non è pane per i vostri denti.
L'atmosfera, i suoni, l'incedere e l'eleganza investita di grigio innalzano senza ombra di dubbio due storiche realtà su tutte a padri putativi della prestazione: in primis proprio i loro connazionali Solitude Aeturnus, in secundis inutile dire che i Candlemass siano un punto di riferimento. Quello che però mi preme far comprendere è che i Well Of Souls, pur possedendo moltissimo del D.N.A. risalente al passato, riescono comunque a incamerarlo in una composizione che si svincola dalla mera riproposizione di standard noti.
Ogni singola traccia sarà interessante sia per gli intrecci chitarristici che per l'ottima capacità espressiva della musica e del cantante John Calvin; intendiamoci, è difficile paragonare chiunque a gente come Rob Lowe che possiede un tratto artististo distintivo, l'ispirazione qui è evidente, tuttavia John si difende più che bene, abile nel conquistare l'ascoltatore affascinandolo e manifestando una genuinità non sempre riscontrabile al giorno d'oggi. Buona anche la produzione che mette il basso di Micheal "Dr. Froth" Millsap sempre ben in risalto all'interno dei pezzi con un'esposizione finalmente degna, quanti album si trovano con questo strumento "ucciso" (alle volte volutamente) ed è un peccato.
Per tutti questi motivi l'album, soprattutto in episodi quali "Forsaken", "Sanity's Lie" e "Ashes Of Despair", regala emozioni da vendere: ciò è necessario per entrare in piena connessione con un disco simile, creare un legame sonoro ma anzitutto empatico.
Non posso dunque esimermi dal consigliare l'acquisto di "Sorrow My Name", è manna dal cielo per coloro che amano e seguono questo filone da sempre e che vedono il numero delle uscite di tale stampo ridotto al lumicino. I Well Of Souls sono un porto sicuro nel quale far attraccare la loro passione.
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Gruppo: Wacht / Dunkelheit
Titolo: Split
Anno: 2012
Provenienza: Svizzera / Ungheria
Etichetta: Bergstolz
Contatti: bergstolz.ch
Autore: ticino1
Tracklist
1. Wacht - Excelling Aesthesia
2. Wacht - Idealistic Elitism
3. Wacht - Unveiling Desecration
4. Dunkelheit - Leviating Amongst The Stars
5. Dunkelheit - Ride To The Realm
6. Dunkelheit - Black Sun Rising
7. Dunkelheit - Dissolving The Mysteries
DURATA: 52:38
Perché perdere tempo a parlare del lavoro della Bergstolz, etichetta svizzera affermata nel sottosuolo? Passiamo senza preamboli alla discussione di questo split Ungaro-Elvetico.
Gli elvetici Wacht aprono le danze con tre piste che mostrano una leggera evoluzione rispetto ai pezzi grezzi pubblicati in passato; passaggi di pianoforte (prologo ed epilogo) e alcune parti mediamente lente contrastano le sezioni veloci, qualche arpeggio melodico arrotonda l'atmosfera generale e rende il pubblico curioso riguardo le future composizioni del gruppo. La produzione non è il massimo del piacere, soprattutto la batteria è impastata e troppo dominante. Parlavo di un certo progresso musicale; le canzoni non sono, però, all'altezza e, secondo me, rappresentano solo uno stadio intermedio che dovrebbe restare nel cassetto fino al prossimo livello evolutivo. Summa summarum, il gruppo non ha lavorato male e offre un black che soddisfa i desideri dell'ascoltatore medio odierno.
Gli ungheresi Dunkelheit, attivi dal 2005, fanno coppia con i Wacht per completare un disco pieno d'atmosfere. La facciata degli Ungheresi offre un black abbastanza marziale ligio ai canoni abituali, pur non essendo di cattiva qualità (pensate quello che volete riguardo questa frase…). Esso contiene molte parti che invitano l'ascoltatore a scuotere la testa, variando spesso il ritmo, anche se gli schemi utilizzati mi paiono standardizzati e lasciano scivolare la creatività della formazione in secondo piano. In fondo i ragazzi magiari non sono da sottovalutare e impiattano una serie di pezzi a volte emozionanti che hanno il loro fascino
Questo CD non offre solo un bel libercolo con tanto di testi e foto dei partecipanti, ma anche una varietà di black che varia da grezzo-atmosferico a lento-marziale. Le due formazioni non appartengono alle punte di diamante della scena europea, offrono comunque un prodotto da non disdegnare.
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Gruppo: Wanderlust
Titolo: Monolithes Entre Ruines
Anno: 2012
Provenienza: Chicago, Illinois, USA
Etichetta: Swampkult Productions
Contatti: wanderlustplague.com
Autore: Bosj
Tracklist
1. Exclamavit
2. Our Fortress Would Gleam In Shadows
3. Shattered Valley Of Gold
4. White Stone Gods
5. Heralding A Sword
6. Breathing Pestilence
7. Smoke Upon Hallowed Ground
8. Remnants Of La Mirande
DURATA: 35:54
Abbiamo già avuto modo di parlare bene dell'operato di Élan O'Neal nel caso dei Maugrim; ora ci occupiamo invece di un altro dei suoi numerosi progetti, in cui il giovane dell'Illinois travalica i confini della propria vocazione primaria, la batteria, ed imbraccia tutti gli strumenti (ad eccezione del basso, lasciato ad un turnista), realizzando un album completo e godibilissimo.
Wanderlust, questo il nome scelto per il progetto solista, è un'idea nata qualche anno fa, durante un viaggio del Nostro nel vecchio continente, i cui "castelli in rovina, vecchie strade, culture raffinate, nuvole basse e fitte foreste" hanno in lui fatto breccia in profondità.
Dopo un ep e una demo, l'autunno del 2012 ha finalmente visto completi ed appagati gli sforzi di Élan con la pubblicazione di questo debutto, "Monolithes Entre Ruines".
Black d'oltreoceano di stampo classico, fortissimamente influenzato dall'ultimo lustro di storia del genere, le cui derivazioni "cascadiche" sembrano non risparmiare proprio nessuno. Dopo la medievaleggiante intro a cappella e qualche percussione che strizza non uno, ma entrambi gli occhi a determinate parti di "Kveldssanger" ("Exclamavit"), si parte in quarta con un lavoro dalle tinte nostalgiche e medievaleggianti, la cui unica pecca è l'eccessiva e sostanziale derivazione da formazioni più blasonate.
Il disco si lascia apprezzare nella sua interezza, O'Neal è molto convincente come compositore, riuscendo ad amalgamare i diversi strumenti e la sua voce in modo del tutto naturale, lasciando intendere come nella stesura del materiale si sia trovato totalmente a suo agio, tuttavia un brano come "Shattered Valley Of Gold" è parente talmente stretto di quanto sentito in "Diadem Of Twelve Stars" (anzi, proprio di "Queen Of The Borrowed Light") da far temere l'incesto.
Tolti alcuni marcati dejà-vu, però, ciò che rimane è una struttura solida, dinamizzata dalla spontaneità forte tipica della giovane età, nella cui produzione è stato trovato il giusto equilibrio tra "pulizia" e lo-fi, permettendo a tutte le diverse sfumature, dagli up-tempo in blast beat agli atmosferici riff del nord-ovest, di trovare il proprio spazio.
Come dire, ampi margini di miglioramento e una personalità musicale ancora in via di definizione, ma le frecce all'arco ci sono, la voglia e l'esuberanza anche, e i risultati di conferma e consacrazione, ci sentiamo di scommettere, non tarderanno ad arrivare.
Allo stato attuale, il black metal si fregia dell'ennesimo nome da tenere d'occhio, quello di Élan O'Neal, in arte Wanderlust.
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Gruppo: Wo Fat
Titolo: The Black Code
Anno: 2012
Provenienza: U.S.A.
Etichetta: Small Stone Records
Contatti: facebook.com/wofatriffage
Autore: Mourning
Tracklist
1. Lost Highway
2. The Black Code
3. Hurt At Gone
4. The Shard Of Leng
5. Sleep Of The Black Lotus
DURATA: 46:13
Per il sottoscritto i Wo Fat sono una delle band alle quali affidare il proprio udito con la certezza acquisita nel tempo di non rimanerne mai, e dico mai, deluso.
La band texana proveniente da Dallas aveva sinora rilasciato tre album ("The Gathering Dark", "Psychedelonaut" e "Noche Del Chupacabra") che da amante dello stoner bluesy e psichedelico mi avevano fatto piangere lacrime di gioia, gli ultimi due peraltro ho avuto modo di presentarli a voi, nostri lettori, proprio in questa sede.
I Nostri rientrano in gioco nel 2012, a un solo anno di distanza dal terzo capitolo con l'uscita numero quattro intitolata "The Black Code" e se l'introduzione vi è sembrata dai toni entusiastici, il resto della recensione, ve lo preannuncio sin da ora, non muterà la sua natura. Il trio composto da Ken Stump (chitarra e voce), Tim Wilson (basso) e Michael Walter (batteria) non sbaglia un colpo e quindi anche stavolta l'album è un fottutissimo spettacolo del quale non si può fare proprio a meno.
Una cosa la possiamo notare sin da subito, soprattutto chi segue i musicisti in questione da tempo probabilmente se ne sarà già accorto, il numero delle tracce contenute nei loro lavori è drasticamente diminuito. Dal debutto che ne conteneva ben dodici, siamo passati alle cinque racchiuse sia in "Noche Del Chupacabra" che in quest'ultimo.
La qualità e il modo di convivere della strumentazione con il songwriting sono invece lievitati di valore col passare del tempo, si è passati infatti dalla produzione dei buonissimi lavori d'apertura a ottimi esempi di una maturazione completa che ha permesso di guadagnare il favore di moltissimi ascoltatori e la consapevolezza di essere fra le band più in forma e costanti nei risultati nel genere.
"The Black Code" è un pizzico meno psichedelico rispetto al suo diretto predecessore, l'operato robusto ma affascinante come sempre di Kent alla chitarra apre le danze nella dirompente "Lost Highway", il flavor rock di stampo southern è lì pronto ad accoglierci a braccia aperte e non lascia proprio dubbi, non è un caso si dica che "chi ben inizia è a metà dell'opera".
Cosa fanno di diverso rispetto al solito? Nulla, è questo che fa impazzire, i Wo Fat non hanno bisogno di andare fuori da nessuno degli schemi compositivi a loro cari, la proposta è fantastica in quanto la coesione fra i tre musicisti ha raggiunto dei livelli assolutamente esplosivi e un pezzo come la trascinante titletrack, dieci minuti di musica che si estende mostrando anche il lato "free", con momenti da "jam-session" che "t'infangano" positivamente inchiodandoti all'ascolto, ti mette a tuo agio sviscerando le varie sfaccettature di un sound che diviene blues in maniera ammorbante e ammaliante in "Hurt At Gone", che per alcuni punti di contatto si potrebbe accostare a "Phantasmagoria" contenuta in "Noche Del Chupacabra".
I bollori dell'alcol e la voglia di valicare i confini tramite viaggi assuefatti di psichedelia cominciano a essere pressanti, verremo soddisfatti anche per ciò che riguarda quell'aspetto? Che cavolo me lo domando a fare, ovvio che sì.
La coda di "The Black Code" ci regala dosi di "marmellata" pura, gustosa, inebriante e quel trip che pian piano si stava delineando assume consistenza dapprima in "The Shard Of Leng", brano che ha un vissuto duale, la metà d'apertura è "totally free" e sin qui conoscendo la vena da "godiamoci quel che vien fuori sul momento" dei ragazzi di Dallas, nulla di nuovo, dopo il sesto minuto però la canzone prende una piega più composta, ma non per questo meno convincente, diciamo che rappresenta l'equilibrio perfetto fra un elevato drogaggio psych e la lucidità dello stoner "d'acchiappo"; mentre l'ultima "Sleep Of The Black Lotus" è un compendio della bravura dei Wo Fat, il pezzo coniuga in sé l'intero universo stilistico della formazione e conduce a una fine che tale non è, il tasto "repeat" è infatti pronto a essere premuto, soluzione che diventa obbligatoria una volta che l'ultima nota ha detto la sua, non posso e non voglio finisca adesso.
La produzione a cura dello stesso Kent e svoltasi ai Crystal Clear Sound siti nella loro città natale e il mastering affidato a Chris Gooseman presso i Baseline Audio Labs di Ann Arbor in Michigan sono dettagli importanti in sede di rifinitura di un "The Black Code" che per l'ennesima volta ci consegna una realtà in gran spolvero e pronta a incantare le folle in sede live.
Cosa state aspettando? Comprate quest'album e sparatevelo a tutto volume, non c'è altro da dire, qui c'è solo tanto, veramente tanto da ascoltare. MUST HAVE IT!
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Gruppo: Winterburst
Titolo: The Mind Cave
Anno: 2012
Provenienza: Francia
Etichetta: Autoprodotto
Contatti: facebook.com/pages/Winterburst/199445295966
Autore: Mourning
Tracklist
1. A Mirror's Game
2. The Mind Cave
3. The Immortals
4. Insanitarium
5. D'Ombres Et D'Infini
6. Circus Of Freaks
7. The Stray
8. The Ancestral Ritual
9. Beyond The Wall
10. Legion Of Souls
11. The Upcoming Chaos
12. Beyond The Wall [orchestral]
DURATA: 01:09:18
Sono trascorsi più di due anni da quando incrociammo per la prima volta il monicker Winterburst, fu il nostro M1 a raccontarvi di questa formazione transalpina scrivendo di ciò che era racchiuso nel demo d'esordio omonimo, adesso ho il piacere di proseguire quella strada approfondendo la conoscenza con il primo full intitolato "The Mind Cave".
Black e sinfonia sono da tempo legati, la Norvegia di Dimmu Borgir e Limbonic Art quanto la stessa Francia degli Anorexia Nervosa e Malevolentia, per limitarci a uno sparuto numero di nomi, han tirato fuori nel corso degli anni dischi splendidi.
Qualcuno poi si è svenduto, qualcun altro è fermo da tempo, altri son rientrati in scena inaspettatamente ma le nuove leve non mancano e i Winterburst, che candidamente provavano a dire la loro con quel demo, sembrano aver proprio cambiato passo.
Se di cambiamenti si parla è giusto iniziare da quelli avvenuti in line-up, a oggi infatti i transalpini sono un sestetto con Vorender alla voce, Shainsaw dietro le pelli, Kyll e Six a ricoprire il ruolo d'asce, Terias alle tastiere e Lust a supportare la sezione ritmica col suo basso, però i musicisti coinvolti nella stesura e nel rilascio di "The Mind Cave" in realtà furono solo quattro dato che sia il bassista che il secondo chitarrista entrarono a far parte della formazione successivamente tant'è che le parti di basso furono affidate all'ospite Neil Leveugle.
Continuiamo su questa strada, cosa c'è ancora di diverso rispetto al passato? Potrei dirvi tutto, inserendo nelle stereo di seguito i due dischi avrete a che fare con due mondi decisamente differenti, difatti le capacità di organizzare ed esporre un sound ricco, atmosferico, teatrale al limite col pirandelliano tante sono le sfaccettature delle quali si fa carico, sono maturate in maniera impressionante.
I Winterburst riescono a districarsi in una ragnatela fitta di fraseggi solenni, drammatici, macabri, inquietanti ed epici, si sprecano gli aggettivi da utilizzare per definirne i puntelli che di volta in volta caratterizzano i brani di una scaletta che dal canto suo non mostra mai il fianco, imperterrita nei suoi sessanta e oltre minuti ammalia a riprova di una qualità compositiva che cresce e si rafforza nel tempo.
È complicato divincolarsi puntando su di un pezzo piuttosto che un altro, si riscontra infatti una forma piacevole di omogeneità a conferma di come sia stato volutamente inserito un filo conduttore unico che mantiene ben salde le redini della situazione e fa sì che la tracklist si possa godere nell'insieme senza subirne il peso del minutaggio esteso.
L'opener "A Mirror's Games" spalanca le porte di un mondo parallelo, gli attimi di delirio puro contenuti in "Circus Of Freaks" dilettano con toni lugubri, la magniloquenza emozionante di "The Stray" (da quanto i Cradle Of Filth non riescono a comporre un pezzo di spessore simile?) seduce, la severità enfatica di "Legions Of Souls" richiama all'ordine e l'effetto lirico in apertura di "The Upcoming Chaos" innalza l'animo; si tratta soltanto di una minima parte di ciò che è stato inglobato in un disco fantastico.
La prestazione dei singoli elementi è d'altissimo livello, il cantante Vorender giostra l'utilizzo del growl e dello scream, ai quali si uniscono brevi apparizioni di clean vocals, in maniera perfetta, elegante e soprattutto centrata in modo da conferire a ogni singola esposizione un ruolo preciso, ben definito all'interno delle canzoni; l'operato di Terias alle tastiere è pomposo e sofisticato quanto basta,supportato e impreziosito dalle chitarre di Kyll in ambito melodico ne impreziosisce maggiormente la resa, così com'è d'attribuire ancora al chitarrista il merito della creazione degli ambiti orchestrali e dei cori, un lavoro il suo mastodontico per mole e ottimo per risultato.
Se tutto gira a dovere lo si deve anche a una sezione basso/batteria ideale allo sviluppo delle canzoni, con i tappeti di doppia cassa e le accelerazioni in blast-beat di Shainsaw che vengono accompagnati diligentemente dalle corde animose pizzicate da Neil. A cornice si pone poi una produzione degna di un'uscita di gran pregio.
Certe label dovrebbero rosicchiarsi le unghie per non aver ancora messo sotto contratto questi ragazzi, che pensando anche al particolare visivo consegnano un disco in digipak apribile di pregevole fattura. Coloro che seguono da sempre il movimento Black sinfonico e amano la musica composta dai gruppi tirati in causa a inizio testo dovrebbero fare proprio questo "The Mind Cave".
In un periodo in cui band come i Carach Angren e i Transcending Bizzarre? sono fra i nomi più interessanti da ascoltare, i Winterburst si candidano come l'inattesa rivelazione perché diciamocelo: si attendeva un miglioramento da parte dei francesi ma non di questa portata, motivo per il quale fareste davvero bene a non perderli di vista e comprarne il debutto. Altro che buona la prima, questa è spettacolare!
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Gruppo: Winterblood
Titolo: Dungeons - Sombre Soundscapes (Remastered Tapes 1996-'99)
Anno: 2012
Provenienza: Italia
Etichetta: Autoprodotto
Contatti: facebook.com/pages/Winterblood/196463727125096 - myspace.com/winterblood78
Autore: Akh.
Tracklist
1. Capitolo 1
2 .Capitolo 2
3. Capitolo 3
4. Capitolo 4
5. Capitolo 5
6. Capitolo 6
7. Capitolo 7
8. Capitolo 8
DURATA: 1:11:09
 Winterblood è un Logo che avete ritrovato sovente fra gli articoli di Aristocrazia Webzine, tramite giri loschi siamo riusciti a scovare la genesi di questo progetto che nasce sul finire del '96e.v. e nel quale Stefano Senesi incomincia a sperimentare soluzioni di stampo Dark Ambient ritualistico, monotono e freddo. Siamo quindi in possesso delle prime tracce tratte dai nastri demo in versione rimasterizzata, che l'artista stesso ha deciso di riportare a galla nella sua produzione e grazie a certi movimenti interni si è potuto finalizzare il desiderio di tale manifestazione (vero Jürgen?).
A dir la verità, i primi movimenti hanno a che fare anche con certe pulsioni più scure, per non dire "nere", infatti il primo capitolo manifesta immediatamente un loop vocale rovesciato disteso su un tappeto basso fosco e minaccioso. Si percepisce che i passi iniziali quindi fanno riferimento al titolo stesso, ovvero alle oscurità della materia, alla pangea antropomorfa cui è legato lo stato dello spirito inizialmente, obbligandolo ad una linea orizzontale.
Si evince chiaramente una natura quasi necrotica e demoniaca anche nei due capitoli successivi, che rispetto alle future produzioni hanno un'agitazione e una natura più movimentata e tormentata, tanto da far dominare la "sacralità" di un canto gregoriano da bordate di una tastiera plumbea, tanto da apparirci un vero e proprio bombardamento a tappeto, su cui sonorità nervose fuoriescono ad intermittenza chiudendo una triade di pura oscurità compositiva; questo era il primo periodo del gruppo.
Lentamente si comincia a comprendere quindi questa evoluzione artistica, il quarto capitolo va a trovare l'unica chitarra elettrica apparsa a mia saputa in Winterblood, cercando istintivamente una vicinanza con Vinterriket, allineandonsi perciò a uno spiraglio verticale di matrice naturale, condizione che permette di sciogliere le proprie spigolosità, dando il via a una maggior distensione strutturale delle composizioni e a una dilatazione dei suoni. Forse questo è il periodo di maggior sperimentazione di Stefano, in quanto anche la canzone seguente trova in una base ritmica solida e martellante l'appoggio per le apertura di keys, già con accenni di trionfo al suo interno, dal vago sapore marziale.
Con il sesto verso di questa compilazione si vanno ad unire le due nature fin qui trovate, infatti le note sognanti del brano vengono contrapposte ad una campana a morto, che a mio avviso delinea la scissione stessa delle due linee, come se finalmente la matrice fisica lasciasse posto all'ascesa dello spirito, un abbandono della propria carcassa, chiudendo di fatto il secondo ciclo.
Gli ultimi due episodi divengono perciò fughe verso l'alto nelle quali Winterblood si rispecchierà nel prosieguo della propria carriera, unendo ad esse una ispirazione di carattere naturalistico (la chitarra acustica, abbinata a giri di tastiera e di piano, mi rafforza ancora di più in questa idea) avvicinandosi per certi versi ad alcune elaborazioni dei Paysage D'Hiver e ai lavori più trascendenti di Vikerness; lo si può notare nel lunghissimo "Capitolo 8", in cui vedo lo scheletro per la scrittura di "Samblana", che abbiamo apprezzato nell'ultimo split del Senesi, qui le proiezioni astrali sono materializzate e l'anima di Winterblood messa a nudo completamente.
Se aggiungiamo che questa operazione di riscoperta è lodevole da parte di un artista di questo calibro per evidenziarne la sensibilità e l'evoluzione, c'è da sottolineare come sia stata scelta la possibilità di far ascoltare a tutti questi brani rilasciando l'interno album in scaricamento libero e gratuito, donandoci la parte più metifica e carnale di questo progetto, ma anche la scintilla divina che dentro vi albergava.
I sotterranei sono aperti...
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