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Gruppo: Path To Ixtab
Titolo: Black Sky
Anno: 2013
Provenienza: Grecia
Etichetta: Autoprodotto
Contatti: facebook.com/PathtoIxtab
Autore: Mourning
Tracklist
1. To Incite Rebirth
2. Hunter / Defiant
3. Prayer # 1
4. Axe In Hand
5. No Redemption
6. At Nighttime...
7. Prayer #2
8. Black Sky Fill My Mind
DURATA: 38:35
 La Grecia continua a offrirmi validi spunti da riportare sul nostro sito e stavolta è il turno dei neo-nati Path To Ixtab di entrare a far parte dei nostri ascolti grazie alla prima uscita "Black Sky". Il duo ellenico composto da Serafim, personaggio già passato su queste pagine data la sua presenza in qualità di batterista nei Brotherhood Of Sleep di "Dark As Light", e Andreas ha iniziato i lavori solo nel 2012 e, dopo aver dato vita a otto tracce, ha deciso di racchiuderle in questo primo album autoprodotto, al momento rilasciato unicamente in formato vinilico.
L'aura permanentemente scura che avvolge i pezzi, pur nutrendosi sia di atmosfere di riferimento black che di soluzioni stilistiche riguardanti il panorama death, sembra essere costantemente attraversata da una scia rock che in alcuni frangenti mi ha fatto immaginare uno strano incrocio fra Darkthrone e Glorior Belli: ciò permette ai Path To Ixtab di esprimersi sia tramite l'irruenza primordiale e cruda dei primi che con l'evoluzione intrapresa dai secondi negli ultimi anni. Esemplari a riguardo i brani "Hunter / Defiant", "Axe In Hand" e "At The Nighttime"; a questi si aggiungono i due capitoli recitati a titolo "Prayer" che, oltre al sentore di "drogaticcio", innestano connotati evocativi alla proposta.
In "Black Sky" non vi è nulla di complesso o intricato: i Path Of Ixtab giocano la partita in maniera intelligentemente semplice, trovando nel modo di mantenere lo sviluppo compositivo "easy", anche se perennemente intriso di quella componente ambientale cupa, il percorso per far assumere all'album una forma ben delineata e affascinante all'udito.
La band pare abbia trovato un accordo con la Venerate Industries per la ripubblicazione e la distribuzione, è quindi possibile che al più presto quest'uscita possa essere reperibile anche in altro formato. Ora come ora però, magari dopo aver saggiato le qualità della loro musica tramite un preventivo passaggio su Bandcamp, vi suggerisco di farne vostra una copia rivolgendovi direttamente a loro.
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Artista: Pentagram
Titolo: Demo I
Anno: 1987
Provenienza: Cile
Etichetta: Autoprodotto
Contatti: Pentagram, P.O. Box 1895, Santiago, Chile
Autore: ticino1
Tracklist
1. Fatal Prediction
2. Demoniac Possession
3. Spell Of The Pentagram
DURATA: 15:36
Qualche settimana fa ho spulciato la lista del mio fornitore olandese da cui acquisto copie di nastri rari. Oggi, finalmente, trovo il pacchetto nella mia cassetta per le lettere. Il ragazzo duplica tutto sulle solite TDK90 e, se resta spazio, aggiunge materiale supplementare che spesso è una sorpresa totale. La nota in fondo al biglietto — che definisce sempre come "X-tra" — attira ogni volta la mia attenzione.
Un tetro arpeggio apre il pezzo "Fatal Prediction" e investe le mie orecchie. Mi domando immediatamente, stupefatto: "Ma chi cazzo sono questi?!". Pentagram... quelli americani? No, non può essere, quelli sono troppo froci. Sudamericani? C'è pure lì del metallo simile? Minchia...
Più tardi, chiedendo ai miei amici, scoprirò che proprio nessuno di loro conosce questo gruppo. La cassetta originale è datata addirittura 1987 e io la incontro appena nel '91! Possibile che questo nastro brutale e malvagio sia passato tanto inosservato? L'atmosfera oscura, la voce dura e aggressiva sono solo alcuni dei punti che eccitano la mia perversa fantasia di metallaro. Metto in lista i Pentagram e spero di trovare presto un disco per potermeli ascoltare in qualità migliore.
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Gruppo: Parasol Caravan / Cachimbo De Paz
Titolo: Use The Fuzz
Anno: 2012
Provenienza: Austria
Etichetta: Autoprodotto
Contatti: facebook.com/parasolcaravan - facebook.com/cachimbodepaz
Autore: Dope Fiend
Tracklist
1. Parasol Caravan - The Barbers Snake
2. Parasol Caravan - Psychotic Fever
3. Parasol Caravan - Big Kahuna
4. Parasol Caravan - Chinese Eyes
5. Cachimbo de Paz - Stare Into The Sun
6. Cachimbo De Paz - Cachimbo
7. Cahcimbo De Paz - Lady
8. Cachimbo De Paz - Coyotes On Peyote
DURATA: 45:21
Due formazioni austriache di cui non avevo mai sentito parlare, i Parasol Caravan e i Cachimbo De Paz. Due formazioni che, tentando di uscire dal sottobosco musicale nazionale e internazionale, uniscono le forze in uno split autoprodotto il cui titolo, "Use The Fuzz", si configura come dichiarazione d'intenti e come manifesto.
La prima metà del lavoro è curata dai Parasol Caravan e parte con una "The Barbers Snake" che ci indica subito il sentiero percorso dal quartetto di Linz: un Southern Rock arrembante che riconduce a Black Label Society e Down, impastato con tratti puramente Stoner attingenti tanto dagli imprescindibili Kyuss (le prime battute di "Chinese Eyes" sono emblematiche a tal proposito) quanto da gente come Colour Haze e Truckfighters. "Psychotic Fever" e "Big Kahuna" sono invece intarsiate di piccole divagazioni vintage che rimandano immediatamente al decennio settantiano, all'eredità imperitura di band come Led Zeppelin e Deep Purple; tali tratti compositivi, immersi nel comunque sempre presente strato sudista della proposta, danno vita a episodi davvero bellissimi. I Parasol Caravan con i quattro brani presentati non pretendono di inventare nulla, ma dimostrano di essere pieni di genuina passione per un genere che sembra essere sempre più in forma.
L'altra faccia di "Use The Fuzz" è rappresentata dalla prova dei Cachimbo De Paz che, con "Stare Into The Sun" e "Cachimbo", dimostrano nei confronti dello stesso stile musicale una predisposizione più sporca e più scura rispetto ai colleghi che li hanno preceduti. Le armi utilizzate dai tre austriaci sono derivazioni discendenti da un indiscutibile retaggio Doom: un'esecuzione vocale più profonda del solito e una tendenza atmosferica che punta più a oscurare il sole che ad esaltarlo. Con "Lady" e con i tocchi funky di "Coyotes On Peyote" si torna su binari più movimentati e classici in virtù di una musicalità Stoner a grana molto ruvida, ma non pensiate di poter rivedere così facilmente la luce solare. I numerosi rallentamenti e le digressioni dalle sfumature vagamente psichedeliche o tendenti a una curvatura Blues, infatti, tengono la proposta saldamente ancorata alle radici scure da cui i Cachimbo De Paz ci hanno già ampiamente dimostrato di attingere.
Tirando le somme, dunque, "Use The Fuzz" si rivela un prodotto che non rivoluzionerà nulla nel campo a cui appartiene e che non diverrà indispensabile; ciononostante è comunque un lavoro indubbiamente valido, godibile e assolutamente interessante nell'ottica di osservare i passi futuri di due gruppi promettenti e capaci.
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Gruppo: Prehistoric Pigs
Titolo: Wormhole Generator
Anno: 2012
Provenienza: Italia
Etichetta: Moonlight records
Contatti: facebook.com/PrehistoricPigs
Autore: Dope Fiend
Tracklist
1. Swirling Rings Of Saturn
2. XXI Century Riots
3. Tafassaset
4. Interstellar Gunrunner
5. Primordial Magma
6. Entelodonts
7. Electric Dunes
DURATA: 55:05
Nelle ere preistoriche, in mezzo a bestie ben diverse da quelle che conosciamo noi oggi, esistevano anche i progenitori degli attuali suini: gli entelodontidi. La paleontologia ci dice che codeste creature sono ormai estinte da milioni di anni, ma sarà vero? Tre musicisti nostrani hanno unito le proprie forze sotto il nome di Prehistoric Pigs e, nell'anno passato, hanno tentato con "Wormhole Generator", loro debutto assoluto, di dimostrarci che la razza sopracitata forse non è scomparsa del tutto.
"Swirling Rings Of Saturn" e "Interstellar Gunrunner" sono prove muscolari ed energiche con un altissimo contenuto di ottani musicali: prove in cui non sarà difficile percepire l'influenza degli imprescindibili Kyuss, ma anche quella di Red Fang e Karma To Burn. Juri (chitarra), Jacopo (basso) e Mattia (batteria) ci avvolgono in un turbinio di note prosciugate e disseccate dall'aria ardente di qualche pianeta desertico disperso nell'universo, avvalendosi anche di digressioni dai toni acidi. In "XXI Century Riots" e "Entelodonts" si giovano altresì di un certo alone Doom che filtra tra le polverose proiezioni di enormi e compressissimi riffoni Stoner. Inutile rimarcare quanto tali apparati sonori rendano soffocante e opprimente l'atmosfera circostante, risucchiando ogni cosa in un infinito vortice di riottoso magma alieno. Chiaramente in un album del genere non potrebbero mai mancare pezzi come "Tefassaset", "Primordial Magma" e "Electric Dunes": escursioni Stoner drappeggiate di psichedelia astrale che agli amanti di queste sonorità non potranno che ricordare felicemente i Nebula.
Concentrati di musica greve ed estraniante, episodi di potente e sfacciata attitudine desertica, viaggi lisergici nelle profondità cosmiche, fughe mentali dilatate e degne dei migliori psiconauti: a "Wormhole Generator" non manca proprio niente! Nemmeno la completa assenza di un apparato vocale può essere considerato come elemento sfavorevole o "mancante", in quanto i Prehistoric Pigs tessono trame lunghe eppure semplici, mai ridondanti o eccessivamente prolisse. Insomma questo debutto non toglierà e non aggiungerà nulla a un panorama musicale che sta vivendo uno stato di grazia che pare inesauribile, però ha tutte le carte in regola per farsi apprezzare senza riserve di alcun genere da tutti coloro che si dilettano ad arare quotidianamente questo campo artistico.
E chissà che, prima o poi, i Maiali Preistorici non facciano ritorno per invadere l'intero globo terracqueo...
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Gruppo: PAS Musique
Titolo: Abandoned Bird Egg
Anno: 2013
Provenienza: Stati Uniti
Etichetta: Alrealon Musique
Contatti: alrealon.co.uk/index.html
Autore: VACVVM
Tracklist
1. Commercial Space
2. The Light Inside
3. Something Indescribable
4. Modern Witchcraft
5. Esoteric Funk Classic
6. Dark Canopy
7. You Are Who You Are
8. Humor In The Quary
9. The Strobe Wheel
10. Abandoned Bird Egg
DURATA 60:00
Solo una settimana fa abbiamo parlato dei Kine, una delle ultime produzioni schizzate fuori dal calderone della Alrealon Musique, e ne abbiamo parlato bene; oggi tocca invece a una ditta consolidata che prende il nome di PAS Musique: i Nostri, forti di una carriera iniziata nel 1995, di una nutrita discografia e di una miriade di collaborazioni sono un meccanismo ormai ben oliato.
La base di partenza è l'instancabile mente di Robert L. Pepper (curatore fra le altre cose di una vera e propria serie discografica per la stessa Alrealon), coadiuvato per l'occasione da Michael Durek, Amber Brien e Jon Worthley. I ruoli non sono definiti, come non è definita la musica del quartetto americano. L'astrattismo è infatti il verbo da cui i PAS Musique attingono più frequentemente, perché la loro opera è da scultori del suono più interessati alla materia in sé che alla sua forma definitiva. Così Pepper e soci non fissano dei limiti, il loro flusso creativo segue i contorni più vari, inaspettati, e dimostrano una coesione artistica formidabile. Nell'arco di un'ora ci troviamo a spaziare dal rumorismo inteso nella sua accezione più pura a collages sonori ora drone, ora dub; insomma è la varietà a farla da padrona, una varietà che inaspettatamente non stanca. Il bombardamento sonoro dei PAS Musique è medicina per il cervello capace di riattivare sinapsi ormai defunte, in grado di risvegliare ricordi con una nota, un riff finto-sgangherato, uno sfrigolio. Come Kandinskij aveva teorie sull'utilizzo del colore, i PAS Musique potrebbero averne su quello dei suoni, e in tal senso ci forniscono un ricco campionario di stimoli: c'è la claustrofobia del degno pezzo di apertura "Commercial Space", ci sono le tinte psichedeliche di "Modern Witchcraft", ma sono interpretazioni, appunto; ognuno vedrà in questi dieci brani quello che i propri sensi gli suggeriranno.
Considerando la brillantezza di "Abandoned Bird Egg" e la continuità con cui i PAS Musique producono dischi di livello credo che non possiate biasimarmi se arrivo a includerli fra i più interessanti (e ingiustamente sottovalutati) sperimentatori dell'ultimo ventennio.
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Gruppo: Psychotic Despair
Titolo: Words For Empty Spaces
Anno: 2013
Provenienza: Repubblica Ceca
Etichetta: Buil2Kill Records
Contatti:facebook.com/pages/PSYCHOTIC-DESPAIR/101821349937607
Autore: Mourning
Tracklist
1. Ruins Of Humanity
2. Km 0
3. Greed
4. The Room Of Wrong Dreams
5. Normality For Sale
6. Words for Empty Spaces
7. World Behind The Door
8. Apathy
9. False Philosophy
10. Ariadne's Thread
11. FreeDoom
12. Professional Disease
13. Killing Innocence
14. Lost Words
15. Carnicero
DURATA: 40:16
Gli Psychotic Despair mi avevano deliziato nel recente passato con le prime due uscite, l'esordio "Personal Identity": dischi che ci consegnavano una band preparata, esperta conoscitrice di un mondo di confine qual è quello death / grind e pronta a evolversi in futuro. Sono trascorsi tre anni dalla loro seconda pubblicazione e, dopo aver raggiunto un accordo con la nostrana Buil2kill Records, è giunto il momento adatto per regalare alle nostre orecchie il terzo capitolo, "Words For Empty Spaces".
I cechi sono una macchina da guerra ben oliata: se in passato Napalm Death, Terrorizer e Misery Index erano riferimenti attendibili per dare una linea guida a chi avesse voluto approcciarsi alla musica dei Psychotic Despair, oggi si potrebbero inserire nel calderone i Cephalic Carnage e gli Antigama, formazioni che hanno tentato di mutare in corsa la propria natura originaria. Le mazzate a profusione non mancano ("Greed", "Normality For Sale" e "Professional Disease"): tuttavia è palese che il gruppo non si sia fossilizzato sul fattore "ignoranza" che tanto ci piace, divincolandosi scatenato tra striature melodiche interne a "Words For Empty Spaces", riff da capogiro contenuti in "Apathy" e una prestazione tecnica che ne evidenzia la maturazione compositiva in "False Philosophy", attestando così un terzo album che è davvero quello della consacrazione definitiva.
"Words For Empty Spaces" è stato prodotto in maniera più che discretamente accurata: i suoni risultano essere ben definiti, con il basso del "nostro" Adriano Neri ancora una volta presentissimo e libero di mostrare la propria personalità. La ruota gira oliata a dovere e macina come e quanto dovrebbe: lo si percepisce chiaramente.
Continuando di questo passo gli Psychotic Despair potranno certamente togliersi delle grandi soddisfazioni. Basterebbero un'ulteriore affinazione in ambito compositivo e una identità che assumesse una forma più costante per arrivare al top: l'ideale sarebbe ascoltare un prossimo lavoro che contenesse l'impatto racchiuso in "Personal Identity" coniugato alla progredita visione di "Words For Empty Spaces". Ci riusciranno? Personalmente ci spero e, dato che sinora non mi hanno mai deluso, consiglio anche stavolta agli amanti del genere di trascorrere quaranta minuti di piacere, facendosi rianimare la giornata da questi ragazzi.
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Gruppo: Pagan Blood
Titolo: Lord Of The Seas
Anno: 2013
Provenienza: Francia
Etichetta: Le Crépuscule Du Soir Productions
Contatti: myspace.com/579335679
Autore: Mourning
Tracklist
1. Nordic Fury (Lords Of The Seas Part.1)
2. Wind Of Eternity
3. Wotan's Will
4. Guardian Of Fate
5. Lost Northern Island (Lords Of The Seas Part.2)
6. Helluland
7. The Ride To Valhalla
DURATA: 45:48
Dietro il progetto francese Pagan Blood si cela la figura di Julien, artista in giro da tempo, ex di Heathen Dawn e Hoarfen, in attività con un'altra creatura solista dal nome Drachenfels, che giunge al rilascio del secondo disco intitolato "Lords Of The Seas", con quella che sembra la sua incarnazione musicale più importante, supportato dall'etichetta connazionale Le Crépuscule Du Soir Productions. L'idea dell'album che si sta per affrontare viene esplicata in maniera immediata dalla scelta delle immagini che danno vita alla grafica: i drakkar vichinghi che solcano il mare inseriti nella zona interna, i conquistatori che sbarcano a terra e la rappresentazione di Odino regalmente seduto sul trono posta nella parte posteriore confermano ciò che ritroveremo nelle note.
Il metal dei Pagan Blood è legato alle movenze e cadenze fiere e battagliere della scandinavia di autori fondamentali come Quorthon, alle melodie e prese di posizione ferree degli Amon Amarth e di motivi per ricollegare l'ispirazione dell'artista transalpino a quel preciso panorama sonoro ne troverete a bizzeffe. Vuoi per la tensione dei brani mantenuta costante e rigida in più di una circostanza forzando sul mid-tempo per irrobustirne maggiormente l'incedere, vuoi per i continui tentativi di ricamare melodie che facciano presa sull'orecchio e influenzare l'atmosfera con toni epici, Julien mette a segno un paio di colpi interessanti sia nei frangenti battaglieri che caratterizzano tracce come "Nordic Fury (Lords Of The Seas Part.1)", "Guardian Of Fate" e "Helluland", sia nella conclusiva e particolarmente estesa "The Ride To Valhalla", pezzo della durata di dieci minuti, nel quale è il sound altero a farla da padrone.
"Lords Of The Seas" è un album più che discreto al quale mancano un paio di episodi "superbi" per poter eccellere, è dotato di una prestazione strumentale e di una produzione nel complesso ben più che accettabili e il viaggio a cui conduce, per quanto noto, risulterà comunque affascinante agli appassionati fruitori del genere, è quindi a loro che consiglio di ascoltare la proposta dei Pagan Blood.
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Gruppo: Pensées Nocturnes
Titolo: Nom D'Une Pipe!
Anno: 2013
Provenienza: Francia
Etichetta: Les Acteurs De l'Ombre Productions
Contatti: facebook.com/Vaerohn
Autore: Mourning
Tracklist
1. Il A Mangé Le Soleil
2. Le Marionnettiste
3. Les Hommes À La Moustache
4. Le Berger
5. La Chimère
6. L'Androgyne
7. La Sirène
8. Le Choeur Des Valseurs
9. Bonne Bière Et Bonne Chère
DURATA: 50:04
"È risaputo che quando un disco fa discutere troppo si è davanti a un capolavoro o al classico culto inventato sul momento": questa frase è contenuta nel testo della recensione che il sottoscritto scrisse per "Grotesque", secondo album del progetto di Vaehron Pensées Nocturnes e oggi quel pensiero è applicabile anche per il quarto lavoro da lui prodotto intitolato "Nom D'Une Pipe!".
Avanguardismo? Sì. Black Metal? Nì. Il francese si allontana ulteriormente dallo scenario "nero", mantenendo però un alone di "depressive" che s'incastra in brani ancor più schizoidi e strani, che miscelano a una natura metal sempre meno imponente elementi di derivazione jazz, musica da camera e tradizionale, combinandoli ad atmosfere teatrali e da cabaret, rimandi a un passato intrigante che in più di un'occasione ci catapulta indietro, richiamando il periodo storico racchiuso fra la fine del 1800 e la seconda o terza decade del '900.
La scaletta racchiude in sé una compagnia che diletta, seduce, ma risulta essere anche complessa e deviata, canzoni come "Le Marionnettiste", "Il A Mangé Le Soleil" e "Le Berger" palesano gli aspetti psicotici, disturbati e tendenti a circuire e aggredire l'ascoltatore, trascinandolo all'interno di una girandola di situazioni che grondano di enfasi, mentre "La Chimère", incantevole nella sua esposizione costantemente supportata da una base venata da striature classiche, insieme a "L'Androgyne" e la successiva "La Sirène" esaltano l'abilità compositiva di Vaehron nel creare tracce multistratificate che non risultano pesanti e inconcludenti. Mettere troppa carne al fuoco è sempre un rischio, tuttavia il Nostro ancora una volta ha trovato il modo di amalgamare al meglio i mille e più pensieri che gli ruotano in testa, tramutandoli in note.
"Nom D'Une Pipe!" si evolve in maniera improvvisa, è evidente che all'artista interessi poco seguire schemi o sentieri battuti e ribattuti, ha la sua strada non del tutto personale, ma definita che percorre ormai da tempo ed è consapevole di correre il rischio di ricevere critiche pesanti per l'assenza di una forma canzone classica o per la volontà di non dare a colui che si cinge all'ascolto una chiara idea di ciò che potrà ricevere dal disco. Se per alcuni questo è scoraggiante e sinonimo di un puzzle che non si completerà mai, per tanti altri diviene il primo motivo per il quale è opportuno entrare in contatto con questo tipo di proposta. Lo scenario, le emozioni raccapriccianti, incatenanti e spontaneamente folli assumono il ruolo di guide all'interno di un paesaggio che per ognuno sarà differente e proprio per questo capace di far provare un maggiore interesse nei suoi confronti, arrivando all'ascolto dei capitoli conclusivi "Le Choeur Des Valseurs" e "Bonne Bière Et Bonne Chère" con l'istinto e una serie di domande che ve lo faranno immediatamente rimettere su.
È decisamente pregevole l'apporto offerto dai musicisti ospiti: José al sax e alla tromba, Mireille con le sue incursioni di voce, Leon De La Grosse alla fisarmonica e George e Raymond a curare la parte riguardante la visione poetica. Chi per un verso e chi per l'altro nel prendere parte all'esecuzione in corso aggiungono quel tocco di classe in più che la rende speciale.
Lo so, le mie parole e il tono positivo della recensione faranno storcere il naso a più d'uno, è cosa ovvia che lavori di stampo simile dividano l'opinione ed è altrettanto vero che i detrattori dovrebbero comunque prendersi un po' di tempo prima di lanciarsi nelle solite — e frequentemente sterili — accuse di pochezza o pseudo-inventiva "alla cazzo" spesso scagliate contro chi non presenta musica rientrante in un preciso e ben distinto "recinto" di suoni.
I Pensées Nocturnes continuano a produrre "arte" e coloro i quali ne avessero apprezzato le uscite passate dovrebbero decisamente pensare di inserire nella lista acquisti quest'ultimo disco. Il viaggio privo di un senso preciso di Vaehron ha i suoi perché, a voi scoprire quali siano o quali di essi vorreste fare vostri, buon divertimento!
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Gruppo: Pain Is
Titolo: God Particle
Anno: 2012
Provenienza: Austria
Etichetta: Noisehead Records
Contatti: facebook.com/PainIs1
Autore: Mourning
Tracklist
1. One Set Go
2. Climax
3. Today
4. Reload My Gun
5. End Of The Game
6. Left All Behind
7. Let Em Pay
8. What We Are
9. Save Me
DURATA: 47:33
La gavetta serve. Qualcuno ormai potrà affermare sia inutile, dato il numero di debutti che fuoriescono praticamente dal nulla, eppure le vere fondamenta di una band dovrebbero solidificarsi soltanto tramite una lunga convivenza, il modellarsi di passo in passo e l'esperienza live più frequente possibile. Un po' quello che è avvenuto nei Pain Is. La formazione austriaca gira internamente al mondo metallico dal 2001 e dopo tre album autoprodotti ("Here Comes The Pain" del 2003, "Painic" del 2005 e "Painback" del 2009) arriva l'accordo con la Noisehead Records che si presta a divenire l'appoggio ideale per dare vita al quarto lavoro "God Particle".
Il sound viaggia decisamente orientato su frequenze moderne, abbiamo tanto groove e partiture heavy/thrash che vengono "macchiate" da un'attitudine nu-metal non proprio celata. Una natura ibrida insomma, che porta alla ribalta tanti nomi noti a coloro che ascoltano metalcore e ciò che è rimasto dell'ondata nu del 2000, quindi Killswitch Engage, Godsmack e Disturbed sono fra le presenze che potrete riscontrare senza particolari patemi nella ricerca dell'entità guida di una band che sembra mancare ancora di una personalità propria, pur destreggiandosi con discreti risultati.
Il riffing e la batteria preferiscono adagiarsi, perseguendo strade conosciute e sicure, puntando più sulla semplicità d'effetto il primo e sulla rocciosità intransigente la seconda, così facendo la prova non spicca di certo per dinamicità. Nonostante ciò, possiede tuttavia un paio di episodi alquanto piacevoli quali l'apertura "One Set Go", "Today", "End Of The Game" e "Left All Behind", dove tra l'altro si fa apprezzare la prestazione del cantante Jerome Jaw. La sua voce è una via di mezzo tra Dave Draiman e Matthew Barlow, con la pecca però di soffrire in alcuni momenti di un'impostazione un po' troppo schematica — che la rende fredda all'ascolto, anche se dopo un paio di giri comunque questa sensazione inizia a scemare — e di volere forzare, annettendo frangenti al limite col growl che non convincono pienamente, come potrete udire voi stessi in "Reload My Gun".
Non c'è molto da poter "criticare", formalmente il disco scorre via in maniera piacevole, sono più gli alti che i bassi e l'unico aspetto sul quale riflettere davvero è la longevità che potrà acquisire o meno all'interno dei vostri ascolti programmati. "God Particle" è da considerarsi il vero inizio dei lavori per i Pain Is, c'è da elaborare il songwriting, dimostrando così di essere capaci di andare oltre una gradita riproposizione di standard stilistici ormai assorbiti dai più. Da questo punto di vista non credo che gli austriaci dovrebbero trovare sul loro percorso delle grosse difficoltà, le motivazioni e la voglia di fare non mancano, la militanza decennale n'è la prova.
Non rimane che dar loro il modo di convincervi, provate a dedicare del tempo a questi musicisti e, se le formazioni che ne alimentano il suono vi fossero ben più che familiari, passerete di certo dei buoni momenti in compagnia di "God Particle".
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Gruppo: Paysage D'Hiver
Titolo: Das Tor
Anno: 2013
Provenienza: Svizzera
Etichetta: Kunsthall Produktionen
Contatti: myspace.com/paysagedhiver
Autore: ticino1
Tracklist
1. Offenbarung
2. Macht Des Schicksals
3. Ewig Leuchten Die Sterne
4. Schlüssel
DURATA: 79:52
Sono pochi i gruppi che riescono a stabilirsi in una nicchia e a mantenere per anni sveglio l'interesse degli ascoltatori. I Paysage D'Hiver, originari del Canton Berna e formati dal solo Wintherr — che milita anche nei Darkspace — appartengono a questa élite. Un ellepì non è mai stato pubblicato e alcune delle cassette demo come quella discussa qui, limitatissime, sono state ristampate su CD e tuttora ambite dal pubblico internazionale.
Siamo nel 2013 e il progetto si ripresenta in sordina dopo sei anni con un lavoro intitolato "Das Tor" ("Il Portale") che si ricollega alle opere uscite nell'ultimo decennio. Come d'abitudine le tracce sono lunghe e la durata di quasi ottanta minuti si distribuisce dunque su soli quattro capitoli. La ricetta degli svizzeri la conoscete: sfondi pieni d'atmosfera offrono l'impalcatura su cui si arrampicano scale di chitarra spesso veloci e ossessive; la voce soffocata o sussurrata è solo un altro strumento nel complesso che l'ascoltatore dovrà considerare in blocco per gustarne la freddezza. L'atmosfera non è solo gelida, ma raggiunge temperature a dir poco artiche, anche grazie alla produzione lo-fi, e sarà la colonna sonora ideale per una passeggiata nell'oscura foresta durante una sferzante tempesta di neve nel prossimo inverno.
I quattro episodi riveleranno all'ascoltatore attento dei paragrafi che gli costeranno una bella fetta di concentrazione, per non fargli perdere la vista d'insieme. Parti di parlato in "Offenbarung" ("Rivelazione") danno un tocco quasi mistico a un disco che è già molto profondo a livello sentimentale; la varietà di sfumature presentate dai Paysage D'Hiver lascia a volte venire la pelle d'oca. La seconda pista, "Macht Des Schicksals" ("Forza Del Destino"), è molto forte e, dopo una lenta introduzione, si scatena in pura disperazione che assale il pubblico con la sua amarezza. In contrasto a questa rassegnazione troviamo "Ewig Leuchten Die Sterne" ("Le Stelle Brillano In Eterno) che grazie alla sua lentezza lascia trasparire un minimo di speranza e di oppressa gioia. Dopo l'immancabile intermezzo di vento feroce che sferza il viso, il lavoro termina con "Schlüssel" ("Chiave"), traccia nuovamente veloce e particolarmente zeppa d'atmosfera meditativa e ancora arricchita da un passaggio di parlato. Sul sito della Kunsthall questa demo appare nella lista di registrazioni che saranno pubblicate in futuro in versione digipak A5, ormai tipica per la casa appartenente a Wintherr.
Il gruppo bernese resta fedele a se stesso, rimanendo indigesto alla maggior parte dei metallari neri ed è un bene che sia così. I Paysage D'Hiver non hanno mai avuto la pretesa di raggiungere le masse con la loro arte e ci rendono davvero lieti non viziando le orecchie indegne dei... "veri blackster" che vivono la moda perché dotata di una immagine figa e malvagia.
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Gruppo: Progenie Terrestre Pura
Titolo: U.M.A.
Anno: 2013
Provenienza: Italia (Veneto)
Etichetta: Avantgarde Music
Contatti: facebook.com/ProgenieTerrestrePura - progenieterrestrepura.bandcamp.com
Autore: Insanity
Tracklist
1. Progenie Terrestre Pura
2. Sovrarobotizzazione
3. La Terra Rossa Di Marte
4. Droni
5. Sinapsi Divelte
DURATA: 51:20
Ci sono band che impiegano diversi anni ad emergere dall'oceano (sempre più saturo) di piccole realtà, e c'è chi con un demo/promo di poche tracce riesce a guadagnarsi immediatamente una piccola schiera di fan. I Progenie Terrestre Pura fanno parte della seconda categoria, già da un po' sentivo parlare molto bene di loro ed ora che è arrivato il momento del debutto sulla lunga distanza ho finalmente avuto la possibilità di tastare il terreno.
Il terreno su cui ci troviamo non sembra essere del nostro pianeta: Eon[0] e Nex[1] ci trasportano infatti verso galassie lontane e paesaggi fantascientifici attraverso il Black Metal atmosferico dei pezzi contenuti in "U.M.A." ("Uomini, Macchine, Anime"). Non è un caso che più di una volta siano stati accomunati ai Darkspace, ma l'accostamento si limita alle tematiche su cui si fondano entrambi i gruppi, poiché sia il modo di intenderle che la loro trasposizione in musica mettono in evidenza notevoli differenze; piuttosto li vedo più vicini (per quanto comunque ancora distanti) alla visione "sognante" dello spazio dei portoghesi Sirius, però senza dubbio nell'oggetto di questa recensione si va oltre.
C'è una sensazione costante da musica New Age, a tratti mi è parso di sentire qualche influenza dai Tangerine Dream ("La Terra Rossa Di Marte"); un buon uso dell'elettronica che infonde elementi IDM e alcune soluzioni di stampo Progressive completano il quadro. I brani sono ben costruiti, le fasi Ambient sono sapientemente alternate a quelle Black Metal (ispirate al sound atmosferico degli ultimi anni) che in più di un'occasione offrono riff decisamente interessanti ("Sovrarobotizzazione" su tutte); i sintetizzatori spesso assumono sembianze futuristiche, contribuendo alla creazione degli scenari sci-fi. La batteria elettronica si occupa di dare un tocco meccanico al tutto, c'è ben poco da contestare dato che raramente se ne trovano programmate con una tale cura; il limite di una drum machine purtroppo è quello dei suoni che, per quanto siano buoni, in alcuni frangenti suonano fin troppo artificiali. Sicuramente è un difetto di minore importanza, anche perché l'attenzione posta sulla sezione ritmica (specialmente nelle fasi più elaborate e in quelle in cui anche il basso si ritaglia qualche spazio) riesce a compensare. Personalmente ho trovato la voce non del tutto convincente, lo scream quasi sussurrato in alcuni passaggi del pezzo d'apertura, ad esempio, non sembra perfettamente adatto al contesto; le parti in clean, al contrario, sono ben inserite, come in "Sinapsi Develte".
Sostanzialmente si tratta di un debutto più che buono, ha i suoi piccoli difetti ma le potenzialità sono presenti e anche già ben sviluppate. Devo ammettere comunque di non comprendere del tutto l'eccessivo entusiasmo per questo disco, senza volere così sminuire la qualità del lavoro. Certamente fa piacere avere band nostrane di questo calibro, per ora posso solo sperare che riescano a confermarsi nei prossimi anni. Nel frattempo rimettiamo su questo "U.M.A." e godiamocelo più e più volte.
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Informazioni
Gruppo: Pryapisme
Titolo: Hyperblast Super Collider
Anno: 2013
Provenienza: Francia
Etichetta: Apathia Records
Contatti: facebook.com/pryapisme - pryapisme.bandcamp.com
Autore: Insanity
Tracklist
1. Un Druide Est Giboyeux Lorsqu'Il Se Prend Pour Un Neutrino
2. Boudin Blanc Et Blanc Boudin
3. Random Jean Vigo
4. La Notion De Chiralité De Spin Et D'Oscillation De Saveur Des Particules Supersymetriques Definissant Un Champs Scalaire Lors D'Une Transition De Conifold En Cosmologie Branaire Dans Un Modele Ekpyrotique
5. Lesbian Bordello
6. J'Ai Envie De Te Claquer
7. Cochenille, Membrane Et Volcanologie
8. Jon-Bon-Jon-Boutros-Boutros-Boutros-Bovi-Miou-Miou
9. Je Suis Venu, J'Ai Vu, J'Ai Sangouinu
10. La Nuit Sur Le Mont-Chauvelu [cover Mussorgsky]
DURATA: 54:17
Insanity è confuso! È così confuso da colpirsi da solo!
Iniziare una recensione citando i videogiochi dei Pokémon è qualcosa che mai avrei pensato di poter fare, eppure eccoci qua: non sono riuscito a trovare parole più adatte per esprimere ciò che mi ha lasciato il disco di cui sto per parlarvi. "Hyperblast Super Collider" è il secondo lavoro sulla lunga distanza dei Pryapisme, seguito di "Rococo Holocaust" datato 2010; l'album è suddiviso in dieci tracce per una durata totale di poco meno di un'ora e la musica in esso contenuta è... Uhm, che cos'è?
Non è facile definire la proposta di questi francesi, una ricetta i cui ingredienti sono talmente tanti da non lasciare il tempo di riconoscerne uno che già ne sono stati inseriti altri; vi basti pensare che in "Lesbian Bordello", brano della durata di neanche due minuti, riescono a unire chitarre in stile Power Metal, melodie da Folk Rock festaiolo — rivisitate prima in chiave elettronica e poi da una chitarra solista — e una batteria che si destreggia tra parti quasi ballabili, sfuriate tipiche del Metal estremo, passaggi da Rock leggero e altri ispirati alla Samba, il tutto riuscendo a mantenere un filo logico seppur lunatico, alternativamente divertente ed emozionante. Ma questa, appunto, è solo una piccolissima parte della musica presente in questo album: le caratteristiche più ricorrenti sono le chitarre prese in prestito dal Black Metal, un uso smodato dell'elettronica — che spazia da un semplice sintetizzatore alla presenza di una cassa tipicamente Gabber e di trame Breakcore — e ovviamente una spiccata attitudine a cambiare e fondere stili di galassie completamente diverse. Qua e là possiamo inoltre trovare un pianoforte che prende ispirazione da Jazz, Ragtime, Swing e, a detta della band, dal compositore Erik Satie.
C'è inoltre un feeling generale da colonna sonora da videogioco ottenuto principalmente dall'evidente amore dei musicisti per la Chiptune, ma anche da alcuni momenti in cui personalmente ho sentito qualcosa di Nobuo Uematsu e dei suoi The Black Mages. Come non parlare ad esempio di "Jon-Bon-Jon-Boutros-Boutros-Boutros-Bovi-Miou-Miou" che, oltre ad avere un titolo molto interessante, è riuscita a portarmi alla mente "Crash Bandicoot" all'inizio, un qualsiasi gioco di un paio di decenni fa nella parte centrale ed infine i moguri di "Final Fantasy IX" appena prima dell'apocalittico finale Black Metal/Breakcore.
Ci sono poi influenze Ska nell'opener, un passaggio simil-Santana nelle battute conclusive di "Random Jean Vigo", percussioni tribali sparse per le tracce, Folk ora orientale ora occidentale, sample tratti da vari film (unica presenza vocale del lavoro, in "J'Ai Envie De Te Claquer" addirittura in italiano) e, per non farci mancare niente, una fantastica e personalissima cover di Mussorgsky posta in chiusura in cui i migliori Dimmu Borgir ed Emperor vengono travolti da ondate elettroniche e a 8-bit, risultato a dir poco esilarante.
Penso che a questo punto sia inutile proseguire lo svisceramento musicale: non ho citato ogni singolo dettaglio (lascio a voi il piacere di coglierne più che potete), anche perché sarebbe decisamente impossibile farlo. Se apprezzate questo modo fantasioso di fare musica, non lasciatevi sfuggire questo pesce d'aprile intitolato "Hyperblast Super Collider": nel caso non foste ancora convinti, sappiate che, oltre ad avere una strumentazione già di per sé varia (clarinetto, batteria reale alternata a drum machine, sintetizzatori e tastiere, ecc.), può vantare collaborazioni con ben due sassofonisti e un gatto.
May the 8-bit Catpocalypse begin!
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Informazioni
Gruppo: Paganland
Titolo: Wind Of Freedom
Anno: 2013
Provenienza: Ucraina
Etichetta: Svarga Music
Contatti: facebook.com/Paganland.UA
Autore: Mourning
Tracklist
1. Wheel Of Eternity
2. Shadows Of The Past
3. Power Of Spirit
4. Chornohora
5. Podolyanka
6. Night Forest
7. Fogs And Twilights
8. Wind Of Freedom
DURATA: 37:48
Che fatica hanno fatto i Paganland, ma alla fine ci sono riusciti!
La formazione ucraina — nata come progetto in studio per mano di Mikola Bilozor (voce e basso) e Andriy "Ruen" Shalay (tastiere) nell'ormai lontano 1997 — dopo la pubblicazione di un solo demo intitolato "Gods Of Golden Circle" si sciolse, eppure al tempo erano stati trovati i membri per renderla una band a tutti gli effetti nelle figure di Oleksandr "Terrorist" Denisenko (batteria) e Andriy Kopylchak (chitarra). Dal 2007 al 2009 rimase inattiva, anche se in quel biennio venne pubblicato lo split "Shadows Of Forgotten Ancestors / Carpathia" contenente però materiale risalente al 2003.
Solo in seguito Ruen riprese in mano le redini della situazione, nel 2010 difatti lo stato di pausa venne tramutato in una rinascita, supportato da Vladislav alla chitarra, Stanislav al basso, Yor dietro le pelli e Volodymyr alla voce.
Ci son voluti la bellezza di sedici anni dal primo vagito del gruppo per aver la possibilità di ascoltare oggi il debutto "Wind Of Freedom".
Ok, le decadi sono passate una dietro l'altra, ma inserendo nel lettore l'album l'impressione è quella di vivere ancora negli anni Novanta. Il suono per la tipologia delle soluzioni scelte, per l'uso delle tastiere e per la maniera in cui le voci s'impongono sui pezzi, alternando graditamente sezioni pulite — alle quali un minimo di variazione nell'impostazione avrebbe giovato, poiché in alcuni frangenti risultano lievemente monotone — e un growl cavernoso, guarda alle radici del movimento "folcloristico" collegato al black ed è quindi a gente come i Bathory (non nominarli sarebbe quasi impossibile), Falkenbach e Mythotin che ci si può aggrappare. A essi poi è possibile aggiungere realtà più giovani d'età quali Butterfly Temple, Finsterforst, Heidevolk ed Ensiferum.
Intendiamoci, i Paganland non suonano esattamente come una congiunzione astrale perfetta di queste anime musicali, tanto è vero che possiedono alcune qualità e peculiarità che in un modo o nell'altro tendono a ricondurre a ognuna di esse, ma al tempo stesso la presenza nel songwriting e nell'impianto atmosferico non è per tutte palese all'udito e fondamentale nel risultato.
È però riguardevole il fatto che il quintetto est-europeo sia in grado di muoversi con destrezza all'interno dell'ambito e riesca a rendere affascinante l'ascolto di "Wind Of Freedom". Lo fa servendosi di ciò che è stato esposto più volte, mantenendone vivide le caratteristiche fiere, sfoderando sentori epici a più non posso in "Power Of Spirit" e "Chornohora" o variando l'umore con le più tetre e notturne "Podolyanka" e "Night Forest".
Non sarà nulla di nuovo, ma sinceramente l'ho trovato ben fatto. I Paganland si mettono a disposizione di coloro che indefessamente mostrano di amare il genere.
C'è comunque da discutere un ultimo piccolo particolare: se vi foste abituati, o peggio adagiati, nell'apprezzare le versioni "fabbricate" serialmente, confezionate con produzioni talmente plastificate che se le tiraste al muro rischiereste di prenderle in faccia di rimbalzo, allora trovereste nel disco uno scoglio non semplice da superare. Parlo dell'imperfezione, o per meglio dire della naturalezza, fornita dal lavoro svolto dietro al mixer da Roman Nakonechniy: questo importante dettaglio potrebbe farvi penare, il che sarebbe comunque strano, mi chiedo infatti come si faccia ad ascoltare musica basata su ciò che è la "natura" a 360° e preferirne una versione artificiale e corrotta.
Misteri... starà a voi svelarli, io non ne sono capace.
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Gruppo: Prosperina
Titolo: Faith In Sleep
Anno: 2012
Provenienza: Inghilterra
Etichetta: Maybe Records
Contatti: facebook.com/pages/Prosperina/180844031931141
Autore: Mourning
Tracklist
1. Piper Alpha
2. Temples
3. God Vs Darwin
4. Arcanum
5. Faith In Sleep
6. Snow Leopard
7. Trees Have Eyes
8. Hypnagog
9. Rebirth
DURATA: 52:06
I Prosperina sono un trio rock gallese — composto da Gethin Woolcock alla chitarra e alla voce, Owen Street al basso e Yotin Walsh dietro le pelli — che ha rilasciato il proprio debutto "Faith In Sleep" nel 2012.
L'album è un ascolto per più di un motivo intrigante e al tempo stesso evidenzia un paio di lacune che ne frenano la piena riuscita.
La musica è varia, si muove su più livelli, mostrando una buona preparazione nell'ambito della costruzione dei brani e sono molteplici le influenze — dai Kyuss ai Black Sabbath, dai Pink Floyd agli Isis, con l'intromissione non poi tanto celata dell'alternative di Tool e A Perfect Circle, oltre ad alcune reminiscenze post-rockeggianti — racchiuse in una prova che offre il meglio di sé nei momenti più inattesi. Sono infatti le tracce più orecchiabili e quelle maggiormente epiche e pesanti a rendere giustizia all'operato dei Prosperina.
Le due "hit" del disco sono senza ombra di dubbio "God Vs Darwin", brano nel quale l'influenza stilistica del signor Joshua Homme è palese, ma che ne ricorda stilisticamente soprattutto il passato molto meno laccato e "popular" delle ultime prove dei Q.O.T.S.A., e il bel pachiderma fuzzy "Snow Leopard", nel quale è stata innestata un'apertura solistica più che vagamente in stile Iron Maiden che calza a pennello e lo vivacizza.
"Faith In Sleep" può offrire soltanto questo? No, abbiamo un altro paio di episodi che stimolano l'udito, facendosi assorbire con piacere, parlo di "Piper Alpha", la titletrack strumentale, "Tree Have Eyes" e "Hypnagog": queste canzoni hanno tutte un loro perché. Sia il lato prettamente rockeggiante o quello atmosferico a coinvolgere e ad appassionare con intensità maggiore poco importa, si percepiscono le voglie e gli atteggiamenti di una band che prova a muoversi su più territori, riuscendoci peraltro con discreta frequenza.
Quali sono le pecche? Un pizzico di prevedibilità e la voce di Gethin, di certo non brutta, ma che non sembra capace di valorizzare pienamente il supporto emotivo e la prestazione strumentale davvero buona in più di un frangente. Il suo modo di cantare non oltrepassa mai il confine, pare non provare proprio a spingere, anche quando la canzone lo richiederebbe. L'approccio sognante e quasi costantemente melancolico non è malvagio, tuttavia sul lungo corso tende ad appiattire un po' la situazione.
"Faith In Sleep" è un album intimo, cerebrale, alquanto rilassato e rilassante, ottimo per distendere i nervi e avere all'orecchio del rock che si possa definire realmente tale.
Per i Prosperina l'avventura inizia prendendo comunque sin da subito una piega positiva e la lista della band da seguire si allunga ulteriormente, vi suggerisco di tenerli d'occhio.
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Gruppo: Portal
Titolo: Vexovoid
Anno: 2013
Provenienza: Brisbane, Australia
Etichetta: Profound Lore
Contatti: facebook.com/PORTALDEATH
Autore: Istrice
Tracklist
1. Kilter
2. The Back Wards
3. Curtain
4. Plasm
5. Awryeon
6. Orbmorphia
7. Oblotten
DURATA: 34:07
Nel variegato mondo musicale moderno vi sono assiomi non confutabili, colonne su cui possiamo fondare certezze e teoremi, sicuri di non sbagliare. Assioma primario e principe è che i Portal fanno paura. Ma non paura metaforica, paura nel senso più letterale del termine. Vietato ascoltarli al buio, vietato ascoltarli la notte, pena ore di insonnia e inquietudine.
Se con "Seepia", "Outre" e "Swarth" non v'eravate spaventati a sufficienza, date la giusta chance a "Vexovoid", portatore sano di degenerazione sonora allo stato più puro e caotico, che con precisione matematica si installa all'interno della produzione del gruppo australiano, traduzione in musica dello spirito di Lovecraft a cui la band s'ispira, per certi versi naturale conseguenza del predecessore, per altri a suo modo innovativo. Perchè se l'argomento trattato è sempre lo stesso, death metal pesantemente contaminato dal black più estremo, se restano tutte le caratteristiche che rendono la proposta dei Portal unica, se restano i versi sghembi di The Curator (che ha cambiato cappello), se restano gli inquietanti riff di Horror Illogium, piccole differenze nel sound e nella costruzione stessa dei brani lo rendono l'opera che segna la raggiunta maturità di una band che già s'era affermata come una delle più originali oggi in circolazione. E l'impressione all'ascolto è che i Portal siano stati davvero in grado di contorcere ancor di più la materia musicale, di portarla ad uno stadio ancor più estremo di destrutturazione, senza mai venir meno alla cifra stilistica di orrore sonoro che li contraddistingue.
La cura per i dettagli è come sempre maniacale, i suoni leggermente più puliti e meno taglienti, pur mantenendo l'ormai nota impronta noise, rendono l'amalgama delle chitarre molto più denso, pastoso, ricco, ed in generale più violento e pesante rispetto alle precedenti uscite; la voce di The Curator assume un colore nuovo, più greve e profonda, più incisiva e gutturale, laddove in precedenza la scelta era stata di mantenerla in qualche maniera lontana e distaccata, un sussurro oltre il muro. Sono piccoli particolari presi singolarmente, ma sommati l'uno all'altro rendono "Vexovoid" fondamentalmente diverso rispetto ai predecessori, più evoluto, più completo. Forse più abbordabile da un punto di vista strettamente legato al sound del disco (pur sempre in unità di misura "portaliane"), forse più facile per il pubblico "nuovo", ma assolutamente labirintico e cervellotico per quanto riguarda la struttura stessa dei brani, che invece raggiungono gradi di complessità ragguardevoli, senza far mai mancare una discreta varietà.
Prendete "Awryeon", i costanti cambi di tempo e i dissonanti percorsi delle chitarre che portano a un finale lento, cupo, ossessionato. Prendete "Curtain" e i suoi momenti di blast beat selvaggio. Prendete il finale in salsa drone di "Plasm". Prendete qualsiasi altro brano, e vi accorgerete che il tema non cambia, il paesaggio devastato che ci troviamo davanti agli occhi non lascia spazio alla speranza, il cielo plumbeo non lascia filtrare nemmeno un raggio di sole. Ed è comunque un paesaggio affascinante. O prendete nuovamente "The Back Wards" e le sue scale, le sue disturbanti asimmetrie e la vertiginosa e malsana accelerazione che a inizio brano travolge letteralmente l'ascoltatore fin lì ignaro di ciò che sta per accadere, accolto da una introduzione tutto sommato pacata.
Il pezzo, a mio avviso correttamente scelto come promo per il lancio del disco, racchiude al suo interno tutto il senso di "Vexovoid", ultimo stadio del virus australiano battezzato Portal. Forse non lo stadio più alienato, probabilmente non il migliore visti i clamorosi precedenti, eppure non per questo meno meritevole. Presumibilmente lo stadio più violento. E se in futuro necessariamente la formula dovrà cambiare in maniera più sostanziale per restare originale, per ora facciamo spallucce e ci lasciamo condurre di buon grado nell'oscurità più totale.
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Gruppo: Pighead
Titolo: Rotten Body Reanimations
Anno: 2012
Provenienza: Germania
Etichetta: Morbid Generation Records
Contatti: facebook.com/pages/Pighead-Official/150469285008034
Autore: Mourning
Tracklist
1. Dead Flesh Alive
2. Atrocious Determination
3. Radioactive Death Trip
4. Grub Into Addled Meat
5. Rotten Body Reanimation
6. Kill The Living, Eat The Dead
7. Japanese Nuclear Holocaust
8. Resurrected Malignity
9. Ragged And Fractured
10. Breed Of Genuine Destroyers
DURATA: 29:29
Ci son giornate in cui ti alzi e hai solo voglia di smantellare tutto, di mandare a quel paese chiunque ti capiti di fronte, allora la violenza sonora ti accompagna con fedeltà, liberandoti dalla pressione di quella levata col cosiddetto "piede sinistro", oggi è stato uno di quei giorni.
Siccome sono un "vecchiaccio" dentro, niente lettore mp3 per me, ho inserito due Duracell nel mio Sony ancora vivo (chissà per quanto), preso il cd dei Pighead e via a passeggiare.
Vi state chiedendo chi siano i Pighead? Degli sfasciacrani provenienti da "cruccolandia", una band che con questo "Rotten Body Reanimation" è al secondo disco, ha firmato un contratto con la Rising Nemesis Records e si è già messa sotto per comporre il terzo capitolo discografico.
Questo quartetto addetto alle demolizioni pesanti è ispirato da simpatici e allegri signori che indossano nomi quali Disgorge, Gorgasm, Katalepsy, Suffocation e limitiamoci a questi. Il loro motto facile e riconoscibile sembra essere "massacrare per esistere", si esibiscono infatti in una prestazione ferale e brutale che non rinuncia a costeggiare lidi slam, fortunatamente, almeno per quanto mi riguarda, non vi affondano mai, questo rende l'album decisamente più vario e di conseguenza meno incline a divenire prevedibile, con le sezioni caratterizzate da pestati a più non posso e accelerazioni da capogiro inserite in modo da disgregare l'atmosfera cupa e mortifera creata da quelle maggiormente cadenzate e allentate.
Il mix è composto ed eseguito a regola d'arte e pezzi come "Dead Flesh Alive", "Kill The Living, Eat The Dead" (del quale è stato ricavato pure un video) e "Ragged And Fractured" sono lì pronti a colpire selvaggiamente, un toccasana per chi ha bisogno di sfogarsi.
L'album dei tedeschi possiede una produzione alquanto azzeccata, le chitarre di Dennock in primo piano a dominare la scena arrembanti e affilate, il basso, sì cari lettori, il basso di Rob, ormai ex della band, è davvero presente e distinguibile in maniera chiara all'interno dei brani, supportando il lavoro freneticamente certosino del batterista Hermann, apprezzabilissimo sia nell'operato svolto sul rullante che in quello sulla cassa con la voce dell'altro ex di turno, Big M, alternando efficacemente growl e pig squeal rigetta sui pezzi un' ulteriore dose di veleno e sensazioni di rancido e putridume assortito.
I ragazzi ci sanno fare e, per quanto sia inutile dirvi che in un panorama musicale simile l'unica cosa che conta sia quanto sai essere feroce e in che modo lo sei, credo davvero valga la pena di dare ai Pighead ciò che meritano: spazio fra i vostri ascolti.
Non mi rimane quindi che suggerirvi la compagnia e agli sfegatati del genere l'acquisto di "Rotten Body Reanimation", perché il "brutallo" alle volte sa ancora stimolarti come ai bei vecchi tempi, ti strappa via i pensieri, chiedendoti solo di affidarti a una cattiveria che una volta reinserita nello scaffale avrà avuto il suo ruolo nella giornata, nulla di negativo, una liberazione non lo è mai.
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Gruppo: Profanal
Titolo: Black Chaos
Anno: 2012
Provenienza: Italia
Etichetta: Iron Tyrant
Contatti: facebook.com/Profanal
Autore: Mourning
Tracklist:
1. Intro
2. Walls Of Agony
3. Into The Abyss Of Grief
4. Black Chaos Horde
5. Torment Of Saturn
6. Submission Of The Beast
7. Conquering Cemeteries
8. Worship The Skull
9. The Bright Light Of Death
DURATA: 33:17
I Profanal sono una delle migliori band attive in Italia, il loro death metal ha letteralmente aperto "di dietro" a valanga dagli esordi e non posso negare di essere legato al gruppo anche per semplici ed emotive motivazioni, fra le quali spicca l'essere stati tra i primi che ho avuto il piacere di recensire.
Nonostante ciò, chiunque abbia avuto più o meno modo di ascoltare su cd e dal vivo questi ragazzi toscani avrà avuto a che fare con una compagine decisa, rocciosa e motivata come poche, contro la quale le critiche sterili basate sull'immobilismo stilistico o un eccesso di cliché old school del death metal possono solo rimbalzare.
È un discorso da fan? In parte sì e non nascondo per nulla di apprezzare alla grande la proposta di Rosy e soci, d'altro canto con il primo album "Black Chaos" il quintetto dimostra che non ha nessun bisogno di esser favorito, puntando i piedi e mandando un deciso segnale ancora una volta in maniera sonora e perentoria: il death che conta oggi passa attraverso le loro uscite.
Cos'è cambiato dal "Demo 2007" e "Rotten Bodies"? L'attitudine è rimasta pressoché la stessa, la devozione al sound scandinavo anni Novanta pure, i Nostri sono però decisamente migliorati nella composizione, rendendo maggiormente efficaci e pestilenziali le composizioni grazie a un'aura nera e satura di putrefazione che si è ulteriormente inspessita. Le prove split nella quali hanno condiviso il campo con gli olandesi Funeral Whore e i tedeschi Obscure Infinity (band note ad Aristocrazia e delle quali troverete alcuni lavori recensiti), aver suonato parecchio live ed essersi confrontati con il panorama estero ripetutamente hanno giovato e non poco alla maturazione e i frutti si percepiscono all'interno di un debutto che non solo fornisce una chiara riprova delle qualità conosciute dei Profanal, ma che assicura loro un posto di prim'ordine all'interno del giro che conta. Fra le leve di ultima generazione, specialmente nel loro settore specifico, sono senza dubbio fra le migliori.
I toscani non necessitano di tremila riff e sessantamila cambi di tempo per trascinare l'ascoltatore nel loro personale "incubo", sfoderano canzoni traboccanti di cattiveria, non scendendo a compromessi e assestando calcioni sfascia-cranio. In tal senso si evidenzia soprattutto il terzetto di brani pre-conclusivo composto da "Torment Of Saturn", "Submission Of The Beast" e "Conquering Cemeteries" (due dei tre vi saranno familiari in quanto già presentati all'interno degli split citati in precedenza), che pare marci sopra una schiera di ossa triturandole; mentre per quanto concerne il "tupa-tupa style" e l'uso delle melodie venefiche e sinistre c'è da godere a manetta con "Into The Abyss Of Grief" e "Worship The Skull".
Fra tutte le uscite del 2012 che si rifanno al sound scandinavo degli anni '90, i Profanal sono fra le fondamentali insieme ai Corrosive Carcass e ai Necrovation. "Black Chaos", e qui un po' di patriottismo ci sta, ha dalla sua la maturità assente in "Composition Of Flesh" e un impatto più ruvido decisivo nella sfida a due con la formazione proveniente da Kristianstad, in poche parole vince.
È il disco d'esordio che in tanti volevamo, è la prestazione che ti porta ad augurare ai ragazzi di crescere costantemente per regalarci in un futuro prossimo quel capolavoro italiano che manca da tempo in quest'ambito, perciò non posso fare a meno di dire acquistate "Black Chaos".
I grandi nomi stiano attenti, se continuano di questo passo alcune formazioni quotate potrebbero essere prese selvaggiamente a mazzate dalla musica dei Profanal. Ah, molti le hanno già prese? Avete fottutamente ragione.
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Gruppo: Phobic
Titolo: The Holy Deceiver
Anno: 2012
Provenienza: Italia
Etichetta: Punishment 18
Contatti: facebook.com/pages/Phobic-official/112908635450696
Autore: Mourning
Tracklist
1. The Holy Deceiver
2. Necrosanctity
3. Liar – From The Deepest Of His Soul
4. Christianized
5. Blessed Lust Arrogance
6. Atrocity By Lies, Dominion Of Breeds
7. Life? / Death. 'Till The End
8. Sunday's Vomit
9. Followin' The Light
10. Phobic
11. The Orison
DURATA: 38:16
Il 2012 è stato un buonissimo anno per il death metal italiano, un evento su tutti ci ha ridato il sorriso: il rientro degli Antropofagus è stato una notizia lieta; in altrettanta maniera accolgo la ripresa dei lavori in casa Phobic.
La formazione lombarda ha cambiato un membro in line-up, dove non è più presente il bassista Gabriel (che ha comunque suonato nell'album), sostituito adesso da una vecchia conoscenza del metal siculo, Maso Alastor (ex fra gli altri di Throne Of Molok e Undead Creep), ed ha rilasciato a distanza di ben undici anni dal debutto "Sick Bleamished Uncreation" il secondo lavoro "The Holy Deceiver". Ancora una volta troviamo a supporto l'immancabile Punishment 18, etichetta che si sta togliendo, e ci sta dando, parecchie soddisfazioni.
L'album del rientro è una bella prestazione di stampo classico, zero fronzoli, nessuna perdita di tempo o complicazioni di sorta, i deathster nostrani la mettono giù dura e semplice attingendo sia dal panorama statunitense che da quello europeo, con nomi quali Benediction, Autopsy, Entombed, Malevolent Creation che per un verso o per l'altro fanno riscontrare la loro presenza all'interno del disco.
I pezzi avanzano compatti e roboanti, non ce n'è uno che mi esalta più dell'altro, apprezzo la proposta di "Holy Deceiver" nel complesso, un monoblocco che attacca con continuità grazie all'ottimo lavoro di Hate alla batteria, allla spietata prestazione vocale di Jericho, al riffing di Theharian che presenta quel tanfo di morte che mi aggrada e al basso di Gabriel, piacevolmente udibile in un contesto che si esprime tramite deflagrazioni irruente, melodie malsane e rallentamenti che fanno davvero male. Questo è ciò che viene consegnato nei quasi quaranta minuti ed è quanto ogni amante dell'old school vorrebbe ascoltare.
Possiamo dunque lamentare la mancanza di personalità? Sì. Possiamo contestar loro il fatto che durante il passaggio nello stereo scattino troppi déjà vu? Ovviamente sì, ma rivolgendo il pensiero ad alcuni ritorni sulla scena da parte di band di rilievo, che definire vaccate è far loro un complimento, possiamo tranquillamente superare tali paranoie, godendoci un disco che una volta inserito nel lettore fracassa crani con la grazia di un carro armato in movimento.
In definitiva, i Phobic sono una compagnia di tutto rispetto, appartenenti alla "vecchia guardia" o appassionati dell'ultima ora poco importa, vi suggerisco di dare una possibilità a "The Holy Deceiver", è puro death metal e su questo non si discute.
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Gruppo: Project Armageddon
Titolo: Departure / Tides Of Doom
Anno: 2010-2012
Provenienza: U.S.A.
Etichetta: Shattered Man Records / Autoprodotto
Contatti: facebook.com/pages/Project-Armageddon/115542915136006
Autore: Mourning
Tracklist Departure
1. Plague For Shattered Man
2. Psyko-Sonic
3. The Reckoning Of Ages Pt. I
4. The Reckoning Of Ages Pt. II
5. Steward Of Shame
6. Lament For The Leper King
7. Time's Fortune
8. Static Transmission
9. Departure
DURATA: 45:11
Tracklist Tides Of Doom
1. Into The Sun
2. Call To Piety
3. Sanctimonious
4. Conflict
5. Tides Of Doom
6. Upon Solace's Shores
7. Fallow Fields
8. Paths Of Darkness
DURATA: 50:21
Per un motivo o un altro non tutti i progetti musicali che popolano il mondo possono arrivare al nostro orecchio, sono troppi, impossibili da seguire e volenti o nolenti c'è sempre qualche chicca che ci scappa, ma si possono recuperare? Alcune sì, altre le incrocierò con una botta di culo, altre ancora rimarranno a noi sconosciute.
Dei Project Armageddon non avevo mai sentito parlare, il trio di Houston (Texas) formato da Alexis Hollada (voce e basso), Brandon Johnson (chitarra) e Raymond Matthews (batteria) mi era sconosciuto sino all'attimo in cui ne ascoltai un paio di brani nell'universo ormai andato a farsi benedire denominato Myspace.
 Contattarli lì sarebbe stato uno spreco di tempo, quindi tramite "Faccialibro" e grazie alla disponibilità di Brandon e soci nel rispondermi e inviare il materiale, posso oggi scrivervi di entrambi i loro lavori, i due sinora pubblicati: "Departure" e "Tides Of Doom". La band è una realtà piacevolmente legata al sound doom retrò e per retrò intendo proprio il proto-sound, abbiamo pertanto una natura molto settantiana che non sfora oltre i primi anni Ottanta come stile, le basi fondamentali sono riconducibili, oltre ovviamente ai monumentali Black Sabbath, all'hard-rock blues e stoner/doom di gente come Blue Cheer Mountain, Saint Vitus, Pentagram e Trouble, ai quali si potrebbero sommare alcune creature oscure del filone N.W.O.B.H.M. e data l'impostazione vocale di Alexis, in qualche frangente sostanzialmente epic nell'imporsi sul pezzo, i nomi potrebbero aumentare quanto il piacere nell'ascoltare le tracce del debutto targato 2010.
A esempio "Plague For Shattered Man" suona talmente come un classico che ti fa dubitare della sua data di nascita, inoltre in qualche occasione ho notato un'affinità con un'altra compagine adoratrice dei Sabbath, i Soundgarden, precisamente quelli di "Outshined", parlo più che altro in termini di feeling e non di precisa collocazione sonora, anche i ragazzi di Seattle erano decisamente al di fuori degli anni Novanta con quella proposta.
I tre legano al fattore doomish una sapiente vena melodica malinconica grazie a toni blues che affascinano e in tal senso l'album ci regala due ottimi pezzi come "Psyko-Sonic" e "The Reckoning Of Ages Pt.II" intervallati dalla "Pt.I" acustica e "tribaleggiante", dal flavour riconducibile a quel gran trippone che è "Planet Caravan", vi sembra poco? Fibrillazione e goduria insieme, e intanto si è giunti a metà disco con "Steward Of Shame" che ci offre una visione maggiormente metallizzata almeno nella fase iniziale, infatti dopo il terzo minuto si rientra in quell'abito oscuro, lento e decadente che tanto ci aggrada.
Non ci sono sorprese nella musica dei Project Armageddon, sembra di avere a che fare con un amico di vecchia data, una persona che conosci da troppo tempo e di cui apprezzi sempre e comunque la compagnia.
Si prosegue col secondo strumentale del lotto "Lament For The Leper King", dotato di un ammaliante operato del riffing che ti si stampa in testa, seguito da "Time's Fortune" dove si palesa una gradita intromissione di stampo epico ad arricchire la proposta, per arrivare a un finale che non sarebbe potuto essere diverso, infatti la breve "Static Transmission" e la conclusiva titletrack omaggiano pienamente le radici tipiche dello stile. A due anni di distanza da "Departure" viene rilasciato "Tides Of Doom", non ci sono stati cambi in line-up, i Project Armageddon saranno quindi riusciti a mantenere gli standard del loro lavoro così alti e affascinanti? Scopriamolo.
Una volta inserito il cd, la prima nota positiva riguarda la produzione, se quella di "Departure" era soddisfacente e polverosa, adesso si ha una definizione più netta e spessa dei suoni, già dall'opener "Into The Sun" veniamo accolti da un peso strumentale decisamente rafforzato, mentre per quanto riguarda le coordinate del sound, la fedeltà d'intento è innegabile, ascoltate "Sanctimonious" e ditemi voi chi dobbiamo ringraziare.
Apprezzo in egual maniera chi tenta di stravolgere la propria natura rischiando e coloro che in forma coerente perseguono il tragitto dando una forma sempre più vivida e intrigante alle proprie prestazioni di album in album. Alexis, Brandon e Raymond in questa circostanza hanno virato ancor più in territorio doomico ed è con grandissimo piacere che posso affermare di aver avuto all'orecchio momenti d'una intensità indescrivibile, che solo band come a esempio i Count Raven sono capaci di trasmettere.
È da evidenziare anche come il numero dei brani totali sia diminuito di un'unità mentre la lunghezza invece sia aumentata, in "Tides Of Doom" troviamo tre colossi oltre gli otto minuti: la titletrack, "Fallow Fields" e "Paths Of Darkness" che per costruzione e stile potrebbero tranquillamente far pensare a una band venuta fuori grazie al supporto di una etichetta come la Doom-Dealer, in pratica pensate a roba in stile Orchid e avrete fatto centro.
L'ennesima constatazione positiva da rivolgere nei confronti di "Tides Of Doom" è rivolta alla modalità con la quale sono state inserite le tre canzoni strumentali "Call To Piety", "Conflict" e "Upon Solace's Shores", il primo e il terzo episodio sono incentrati sulla crescita dell'impatto tramite soluzioni non elettrizzate, mentre la seconda si allinea all'esecuzione e alle vibrazioni prodotte dalle tracce nel quale appara la voce, che non interrompe il flusso di sensazioni che girano intorno all'area "destino".
Entusiasmo e doom allo stato puro, questo è ciò che sono i Project Armageddon, una band che mi sento di consigliare agli appassionati del panorama classico e pertanto i due dischi, "Departure" e "Tides Of Doom", non sfigureranno all'interno delle collezioni che andate arricchendo di giorno in giorno, non lasciatevi scappare l'occasione, fateli vostri.
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Informazioni
Gruppo: Palmanana
Titolo: Origin Of The Green
Anno: 2012
Provenienza: Italia
Etichetta: Autoprodotto
Contatti: facebook.com/PalmananaMusic - palmanana.bandcamp.com
Autore: Dope Fiend
Tracklist
1. Intro
2. Jessica Rabbit
3. Palmanana
4. Newbreed's Manifesto
5. Gianna Michaels
6. Lou
7. Devil's Kick
DURATA: 35:25
 In Italia il luogo più adatto per evocare la riarsa attitudine Stoner credo sia proprio la Sicilia e quindi non vi stupirete se vi svelo che i Palmanana, trio dedito al rock desertico, provengono esattamente dal cuore dell'ardente Trinacria.
"Origin Of The Green" è la prima prova dei ragazzi siculi che, senza mezzi termini, espongono immediatamente quali sono le basi del loro percorso artistico, il quale non pretende e non cerca innovazioni ma ripropone con fedele personalità gli stilemi di una corrente musicale che, negli ultimi anni in particolare, ha conquistato più di un cuore.
Pezzi come "Jessica Rabbit" e "Devil's Kick" non si fanno pregare per sfoderare la sfrontata influenza di Palm Desert in cui lo stampo dell'irruente e polverosa irriverenza che è il marchio di fabbrica di gente come Fu Manchu e Kyuss deflagra con il suo carico di riff afosi e stracolmi di fuzz, surriscaldando ed elettrizzando tutto ciò che incontra.
A fare il paio con queste movenze sono anche "Palmanana" e "Newbreed's Manifesto" con i loro momenti di ispirazione Psych uniti ad un'andatura maledettamente Rock di cui signori come Scott Hill, John Garcia e Josh Homme sono i padrini sempiterni.
L'episodio migliore del lotto è forse "Gianna Michaels", traccia in cui movenze di estrazione prettamente Doom (che non sfigurerebbero affatto in un disco degli Acid King o degli Electric Wizard) si uniscono ad un fantastico background indiscutibilmente sabbathiano e settantiano; insomma, quel tipo di suono saturo e orgasmicamente grasso che provoca incontrollabili erezioni a tutti coloro che sono quotidianamente dediti a questo tipo di droga musicale.
Non troverete evoluzioni e non troverete progresso in "Origin Of The Green" ma "soltanto" tanta, tantissima passione... ma poi, diciamoci la verità: lisergia, deserto, birra e trip infiniti, c'è forse qualcuno che desidera qualcosa di meglio dalla vita?
Avanti così, Palmanana!
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