Informazioni
Data: 19-20/07/2013
Luogo: Pößneck, Germania
Autore: Istrice, Dope Fiend e Bosj
Scaletta
VENERDÌ 19/07
Bölzer
Irkallian Oracle [in sostituzione dei defezionari The Gates Of Slumber]
Dead Lord
Verminous
Vomitor
In Solitude
Hobbs' Angel Of Death
Acid King
Repulsion
Portal
SABATO 20/07
Amulet
Vorum
Svartidauði
Attic
Antaeus [show annullato]
Cruciamentum
Necros Christos
Satan
Electric Wizard
Capitel I – Weisshorn Vs Trenitalia
Istrice: Il cielo è coperto, la temperatura piuttosto rigida, Castello di Fiemme dorme placida ai piedi delle Dolomiti. È il giorno della partenza e nel pomeriggio, espletati un paio di impegni personali in quel di Trento, recupererò i commilitoni in una qualche stazione della provincia. Giusto il tempo per una rapida escursione in mattinata, in buona compagnia, al Weisshorn, ridicola cima alle spalle di passo Oclini. L'aria frizzante e la minaccia di pioggia non fermano la voglia di farsi una rapida scalata prima di salutare le montagne verso le basse pianure tedesche. Arriva sera, e con essa l'atteso momento del ritrovo, Bosj, Dope Fiend e Carlotta si presentano con espressioni diametralmente opposte alla mia, rilassata dall'escursione, le facce devastate dalla solita Odissea che si vive quando si affronta un viaggio con Trenitalia. Per fortuna ci pensa il ristorante di fiducia a ristorare gli animi con una cena a base di Groestel ed altre amenità montane, poi doccia e tutti a nanna, che l'indomani l'alzata è di quelle dure. Alle sei e mezza l'asfalto scorre già veloce sotto le ruote, destinazione Pößneck.
Capitel II – No Vabbè, Ma QUI?
Istrice: Con Dope Fiend e consorte sconvolti da un viaggio in compagnia mia e di Bosj, che implica elettronica intelligente sparata a volumi da perforare i timpani, arriviamo in quel buco di culo di Pößneck, paesello della Germania rurale dimenticato da Dio, distante un migliaio di chilometri dalla nostra madre patria. Girovagando alla ricerca del luogo del festival, troviamo a caso l'area della pista da motocross: "Ah guarda te, qui pure fanno qualcosa, deve essere una sagra di paese, il palco è la metà di quello montato a Casalmaggiore per la festa del patrono". La distesa di maglie nere e capelli non curati ci suggeriscono che in realtà siamo proprio alle porte dell'Hell's Pleasure, e, increduli, attendiamo il nostro turno per entrare. Una breve esplorazione e ci rendiamo conto che l'area concerti è davvero minuscola, che i banchi di cibo scarseggiano (per usare un eufemismo), e che l'area campeggio, sebbene ampia e ombreggiata, è affiancata a un silo di compostaggio dei rifiuti ed è contaminata costantemente dall'olezzo di immondizia in decomposizione. Bei momenti.
Capitel III - Landscapes
Dope Fiend: Dopo essere finalmente riusciti a piazzare le tende nel punto geograficamente più lontano dall'area dei concerti (ma anche nel punto in quel momento più dotato di ombra e meno dotato di gente accampata), ci avviamo alla volta del piccolo palco dell'Hell's Pleasure. I musicisti impegnati sono gli svedesi Dead Lord, i quali propongono un rock classicissimo che al sottoscritto onestamente non dispiace, ma la nostra stanchezza, unita al caldo infernale, è un ostacolo troppo grande per permetterci di gettarci subito nella mischia. Decidiamo quindi di avventurarci nei pressi delle bancarelle dei dischi per dare un'occhiata, ma, ahimè, notiamo rapidamente che i prezzi non sono così competitivi. Non particolarmente esorbitanti, ma nemmeno invoglianti all'acquisto, eccezion fatta, forse, per alcuni pezzi di vinile. Desidero segnalare a margine, tra le altre cose, la presenza dell'esposizione della nostrana Terror From Hell, unica e piacevole rappresentante italica sul luogo. Tra l'acquisto di qualche album (nonostante i prezzi, alla fine ci porteremo comunque tutti a casa qualcosa, prevalentemente di stampo doom, ma senza farci mancare altri putridi e aberranti abomini musicali) e una sosta all'ombra, il pomeriggio scorre in fretta, e il giorno dopo ci assalirà anche un po' di dispiacere per aver saltato l'esibizione dei Vomitor: sarebbe potuta essere un'occasione per vedere in volto (e riconoscere) Horror Illogium, l'oscuro demone chitarrista che di lì a poche ore sarebbe risalito sul palco con i Portal, ma questa è un'altra storia.
Capitel IV - Acidi, Acidi E Ancora Acidi
Dope Fiend: Per la spedizione aristocratica l'Hell's Pleasure si apre ufficialmente intorno alle 21.30, quando gli Acid King fanno il loro ingresso in scena. Adoro immensamente la formazione californiana e sono assolutamente impaziente di vedere come i tre se la cavino sul palco; ora posso dire che sì, gli Acid King sono solo tre, ma anche dal vivo dispensano energia e droganti distorsioni per sei. Il grezzo fascino da camionista tatuata di Lori, la sua chitarra che apre abissi e il basso di Mark Lamb, a volte distorto con un fuzz da chitarra (e qui credo di aver detto tutto), innalzano una coltre spessissima su tutto l'uditorio. Gli Acid King aprono con la sempreverde "2 Wheel Nation", estratta da quel dannato capolavoro che è "III" e proseguono a suonare per circa un'ora, inondando tutti noi con un suono così enorme che avremmo potuto davvero misurarlo in metri cubi, invece che in decibel. Prestazione assolutamente immensa per gli Acid King, imperdibile per chiunque ami lo stoner.
Capitel V - The Curator E L'Allegra Combriccola, Ovvero L'Apocalisse
Istrice: Superato con fatica il concerto dei Repulsion, autori di una prestazione a dir poco imbarazzante, mutilata da suoni indecenti ("ma non sono sempre così" ci tiene a sottolineare l'affezionato Bosj), ci addentriamo nelle prime file raggiungendo la transenna, mentre i wallabies smascherati (e noi polli a capirlo solo in un secondo momento) provano le loro otto corde. Bastano due bordate di suono per rendersi conto che l'attesa sarebbe stata ben ripagata, che ciò a cui si stava andando incontro sarebbe stato memorabile. Calano le luci, il fumo invade il palco e il quintetto di Brisbane fa la sua entrata in scena. Premessa: se su disco la proposta dei Portal riesce ad annichilire completamente l'ascoltatore, dal vivo è anche peggio. I quattro strumentisti, cappuccio nero e cappio al collo, sviluppano un muro di suono disumano e le chitarre scivolano veloci sui ritmi afasici dettati da Ignis Fatuus. Horror Illogium mette in scena un vero e proprio clinic su come creare terrore sonoro, il mignolo bionico che sul manico arriva a toccare distanze infinite, tecnica impressionante al servizio del caos più totale. E poi The Curator. Minchia, The Curator. Una delle presenze sceniche più totali che mi sia mai capitato di vedere, vero e proprio Signore del Male, capace col solo sguardo di catalizzare su di sè tutte le attenzioni, agghindato alla perfezione con un nuovo copricapo. In un'ora abbondante di esibizione il quintetto inghiottisce l'intera Turingia e le regioni limitrofe in un enorme buco nero sonoro, recuperando brani da tutta la propria produzione. Sebbene sia pressoché impossibile riconoscere tutto quanto suonato, posso affermare con discreta certezza di aver percepito nel vortice sonoro "Swarth", "Vessel Of Balon" e "Awryeon", e tuttavia questo resta un aspetto irrilevante, poiché la demolizione emotiva e mentale provocata dall'esibizione non lascia spazio ad altre riflessioni. Allontanandoci dal palco, distrutti fisicamente e spiritualmente, ci accorgiamo che il cielo è terso e nemmeno le "several thunderstorms" previste per la serata hanno avuto il coraggio di farsi vedere, terrorizzate anch'esse dall'esibizione dei Portal. Resteranno il gruppo più citato dell'intero festival. Turbati nell'animo ce ne andiamo a nanna.
Capitel VI - Bosj's Incursion
Bosj: Non so quale santo (o dimonio) mi abbia svegliato giusto giusto quindici minuti prima che i Vorum attaccassero; decisamente frastornato, mi guardo intorno e vedo tutti i miei compagni di ventura beatamente addormentati. Stoicamente, per amor di cronaca, del metallo della morte e più probabilmente dell'autolesionismo, mi sposto dalla tenda al piccolo palco, e mi sciroppo l'esibizione dei finlandesi. I quattro giovinastri tengono alta la bandiera del death vecchia scuola, quello marcio, veloce e asciutto, e nei tre quarti d'ora circa a loro disposizione riescono a raggelare persino l'assolato Hell's Pleasure, che alle quattro del pomeriggio agonizzava sotto un tragico solleone. Forti del recente debutto "Poisoned Void", i ragazzi non concedono tregua al pubblico, e nonostante l'orario ingrato e la temperatura davvero ai limiti della sopportabilità, intrattengono al meglio. Veloci, precisi, incazzati e pure fedeli all'estetica, i Vorum non solo riescono a inanellare un brano dietro l'altro con cattiveria sempre rinnovata, ma lo fanno anche bardati di giubbotto di pelle, collane e monili vari di ossa (vere o finte non è dato saperlo, ma propendo per la prima) e litri e litri di sangue posticcio spalmato addosso. Con quel caldo, un voto in più per la coerenza.
Capitel VII - Attraverso I Cancelli Del Reame Di Morfeo
Istrice: Ci svegliamo rincoglioniti dopo il pisolino pomeridiano, scoprendo che l'audace Bosj s'è recato in zona concerti per i Vorum e lo raggiungiamo mentre iniziano la loro esibizione gli islandesi Svartidauði. Bardati come nemmeno un no-global durante un G8, il gruppo si destreggia con scioltezza sul palco, attirando con le sue chitarre zanzarose il pubblico, che si fa via via più numeroso. I ragazzi convincono appieno, i brani estratti dal recente "Flesh Cathedral" sono di grande impatto, vari e con costanti cambi di tempo. Qualche lungaggine in meno e possono davvero diventare una realtà interessantissima. Sono pischelli, diamogli tempo.
Il pomeriggio prosegue nel nulla cosmico, complice la defezione all'ultimo degli Antaeus, e il plotone aristocratico s'aggira tra le bancarelle mentre gli Attic mettono in scena il loro heavy del tutto anacronistico, attendendo con pazienza il momento dei Cruciamentum.
La band britannica si manifesta sul palco attorno alle 20:00, pochi fronzoli, gran macello, death metal d'autore, marcio al punto giusto. Nei quarantacinque minuti a disposizione snocciolano quasi tutti i brani del loro ridotto, ma intenso repertorio, giusto un paio di EP fino a oggi e un paio di pezzi sparsi fra split e demo, proponendo anche un inedito dall'album in arrivo il prossimo anno. Ottimi suoni, grande impatto, diretti e violenti. E pensare che si volevano sciogliere per impegni del cantante. Per fortuna almeno un full ce lo offriranno, e per ora ci si accontenta. Da tenere d'occhio perché questi son bravi per davvero. Per quanto mi riguarda insieme coi due headliner completano il podio di questo Hell's Pleasure 2013.
Capitel VIII - La Quiete Prima Della Tempesta
Dope Fiend: Dopo l'impagabile e marcescente luridume dei Cruciamentum che ha inevitabilmente donato quel tipico fetore di putrefazione alle nostre anime, è il momento di assistere alla prestazione dei Necros Christos. I quattro teutonici si presentano più sobri di quanto mi attendessi e attaccano immediatamente a bombardarci con quel death scuro e occulto, innestato a più riprese di una certa aura doomica, che a me piace tanto, nonostante non sia un grande amante del death nella sua forma classica. C'è da fare una precisazione: i Necros Christos ce li si gode innegabilmente di più su disco. L'ambiente live è, per sua natura e a maggior ragione in un festival all'aperto, poco incline a favorire lo sviluppo di quell'atmosfera misticamente demoniaca che invece è parte fondamentale della proposta dei nostri. Quindi, appunto, ascoltarsi "Doom Of The Occult" in cuffia tra le mura di casa sarà sicuramente più efficace, ma ciò non toglie che sentir suonare e farsi asfaltare dal vivo da un'enorme "Doom Of Kali Ma" abbia il suo perché. Prestazione di indubbio spessore e soddisfacente, seppur non premiata dal contesto.
Il turno sul palco successivo è quello dei Satan, quei signori inglesi che la bellezza di trent'anni fa scrissero "Court In The Act", uno dei migliori dischi marchiati NWOBHM. Il gruppo si è recentemente riformato, dando alle stampe l'album "Life Sentence" che, a quanto sembra, è stato ben accolto da moltissimi. Devo ammetterlo: vedere a un paio di metri da me gli stessi musicisti che costituirono una delle punte di diamante di quel movimento che tanto apprezzo, mi ha emozionato. I cinque, a dispetto di un'eta ormai non più così florida, si divertono, sono energici e offrono una prestazione veramente ottima. Brian Ross, innegabilmente appesantito da un pancione piuttosto vistoso, non ha perso un briciolo della sua voce, così come tutti gli altri membri sembrano perfettamente a loro agio con gli strumenti. Vengono proposti alcuni estratti dall'ultimo parto discografico ("Time To Die" e "Siege Mentality"), ma è con i vecchi classici che i Satan dimostrano il perché della loro longevità: "Blades Of Steel", "No Turning Back" e "Break Free" sono solo alcuni degli episodi estrapolati dal loro passato e sono davvero un pregevole spettacolo per chi, come il sottoscritto, ama molti prodotti di quegli anni.
Capitel IX - Funeralopolis
Dope Fiend: E giungiamo così alla portata finale di questo Hell's Pleasure: gli Electric Wizard. Tra un tedesco che tenta di comunicare con noi dicendo che apprezza i nostrani Bretus (nonostante poi non capisca un beneamato cazzo quando gli parliamo), la sorpresa nel vedere montare sulla batteria dei piatti con un diametro almeno triplo rispetto a quelli normalmente utilizzati e l'attesa di un lungo soundcheck che ha visibilmente spazientito l'altrimenti impassibile Liz, finalmente si inizia ed è subito il "devasto" totale. Jus, in grande forma, annuncia una partenza officiata dall'immortale "Return Trip", ma è con l'esecuzione di "Black Mass" che la pianura tedesca si arrende definitivamente al potere del doom. Quando l'ugola del buon Osborn vomita la mistica invocazione "hear me Lucifer", l'intero Hell's Pleasure collassa, implode, sprofonda in un baratro di oscurità demoniaca e drogata. Dopo una "The Nightchild" che mi fa rizzare il pelo sul corpo per l'intensità raggiunta e altri pezzi vari, la chiusura dell'Hell's Pleasure si preannuncia di quelle con il botto. Una sola parola: "Funeralopolis". Jus, consorte e soci riversano qui tutta la loro insania, tutta la loro rabbia, tutta la loro degenerazione, tutta la loro acidità, tutta la loro voglia di annientare. Veniamo letteralmente devastati dalla carica di quest'ultimo pezzo e, dopo la buonanotte augurataci proprio da Jus, ci avviamo verso le tende: siamo sordi, esausti, annichiliti. Pochissime ore di sonno ci attendono prima del lungo e stancante viaggio di rientro e prima del ritorno alla solita e noiosa quotidianità, ma possiamo ritenerci decisamente soddisfatti del bilancio finale dell'Hell's Pleasure. Addio, Pößneck! O arrivederci?
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Gruppo: Amon Amarth
Titolo: Deceiver Of The Gods
Anno: 2013
Provenienza: Svezia
Etichetta: Metal Blade Records
Contatti: facebook.com/OfficialAmonAmarth
Autore: M1
Tracklist "Deceiver Of The Gods"
1. Deceiver Of The Gods
2. As Loke Falls
3. Father Of The Wolf
4. Shape Shifter
5. Under Siege
6. Blood Eagle
7. We Shall Destroy
8. Hel
9. Coming Of The Tide
10. Warriors Of The North
DURATA: 47:52
Tracklist "Under The Influence"
1. Burning Anvil Of Steel
2. Satan Rising
3. Snake Eyes
4. Stand Up To Go Down
DURATA: 15:26
Da bravo e fedele fan degli Amon Amarth ho cercato di limitare al massimo l'ascolto di ogni tipo di anteprima del nuovo album "Deceiver Of The Gods", preordinandolo per riceverlo il più vicino possibile alla data di uscita europea del 24 giugno 2013. La versione digipak limitata che mi è giunta si presenta come un piccolo cofanetto decorato con un effetto per simulare il legno, all'interno del quale si trova il disco vero e proprio dentro una custodia in cartoncino ricca di illustrazioni che si apre, rivelando, oltre al cd, il libretto contenuto in una tasca; in aggiunta la Metal Blade ha inserito un poster su doppia facciata con l'immagine di copertina (che non mi ha convinto per nulla poiché troppo "fantasy") e una foto del gruppo, e l'ep "Under The Influence" in formato cd-pro. Spero mi perdonerete se mi sono risparmiato di spendere i 90 eurini del formato boxset ultra-limitato col busto di Loki: non si abbinava col mio arredamento domestico...
Seguendo con costanza da molti anni i miei Vichinghi preferiti, sapevo bene cosa potermi aspettare, difatti dal 2006 a oggi il death metal dei Nostri è divenuto sempre più melodico e "rotondo", sgrezzandosi totalmente e ricercando spesso il ritornello di grande presa da sfoggiare durante i concerti. "With Oden On Our Side" e "Twilight Of The Thunder God" hanno rappresentato due splendidi episodi ricchi di freschezza (per i canoni Amon Amarth) che hanno segnato una nuova giovinezza per il quintetto di Stoccolma. Sfortunatamente già il precedente "Surtur Rising" aveva fatto risuonare qualche campanello d'allarme, che oggi ha assunto una intensità impossibile da non avvertire.
I dieci nuovi brani peccano totalmente in mordente, vanificando così diverse buone idee che avrebbero potuto essere sviluppate in maniera migliore. La potenza che la produzione di Andy Sneap dovrebbe far detonare resta compressa e non si tramuta mai in aggressività palpabile, generando uno sgradevole effetto di castrazione "digitale" e piattezza; "Shape Shifter" ad esempio è quadrata e massiccia, eppure non può che far rimpiangere gli Amon Amarth della fase centrale della propria carriera, mentre "We Shall Destroy" nella sua semplicità e assenza di fronzoli convince di più. Non solo l'ardore grezzo dei Vichinghi è assente ingiustificato, ma al contempo le melodie si sono fatte eccessivamente "facili" e i ritornelli sovente vengono inseriti troppo frettolosamente durante le canzoni (come nel caso di "Shape Shifter") oppure stemperano all'eccesso l'impeto costruito con difficoltà dalle strofe ("Father Of The Wolf"); a onor del vero tuttavia non mancano composizioni con ritornelli non ariosi ("Blood Eagle") oppure totalmente prive di essi. Il risultato di tutto ciò è un disco che potremmo definire "heavy", con tutti i pro e i contro che questa etichetta può portarsi dietro se associata a una formazione death metal.
Johan Hegg e compagni però non sono ancora totalmente bolliti e qualche soluzione che intriga piacevolmente la sfoggiano: in particolare il fraseggio dalle tonalità tragiche di "As Loke Falls", cui fanno da contraltare il growl sempre poderoso e il basso massiccio di Ted Lundström che sferza pesantemente l'aria; non male pure il riff dalle tonalità (finalmente) epiche nella seconda parte della severa "Under Siege", che comunque non stupisce né incanta. Nell'ultimo terzo del disco invece appaiono gli episodi meno canonici, il primo dei quali vede la presenza della leggenda Messiah Marcolin (ex Candlemass): "Hel" vive di sonorità dai tratti doom, cori quasi "ammalianti" e la voce pulita dell'ospite a duettare con quella ruvida tipica del gruppo; il risultato finale è sufficiente e contribuisce ad aumentare il livello di varietà dell'album. "Warriors Of The North" infine chiude la contesa dilatando l'atmosfera e sviscerando una struttura meno lineare del solito attraverso otto minuti con un gusto agrodolce sulla bocca, frutto sia del clima sonoro fatalista che dei dubbi che restano dopo l'ascolto.
Nulla più che un divertissement un po' pacchiano risulta "Under The Influence", ep composto da quattro brani in cui gli Amon Amarth incontrano rispettivamente Judas Priest, Black Sabbath, Motorhead e AC/DC. Questo genere di cd bonus è stato preferito rispetto alla canonica proposizione di vere e proprie cover, ma difficilmente rimarrà negli annali.
Non posso che giudicare quindi "Deceiver Of The Gods" un disco trascurabile, e in rapporto al panorama metal generale e all'intera discografia degli Amon Amarth, dove esce con le ossa spezzate dal confronto con qualunque altro album. A differenza del predecessore qui ogni singolo spunto interessante non si concretizza mai sul lungo periodo, restando soltanto un'idea abbozzata, e l'assenza di mordente è troppo evidente. Dov'è finito lo spirito vichingo, al tempo stesso epico e grintoso, del loro death metal? Gli svedesi si sono già giocati due jolly (negativi) in sequenza, un futuro terzo non potrebbe che decretare la fine artistica dei prodi figli di Odino anche agli occhi dei fan più devoti come il sottoscritto, che ha fatto di tutto per farsi piacere pure queste canzoni, ma non può essere sordo di fronte alle loro palesi debolezze.
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Gruppo: Blood Ceremony
Titolo: The Eldritch Dark
Anno: 2013
Provenienza: Ontario, Canada
Etichetta: Rise Above
Contatti: facebook.com/bloodceremonyrock
Autore: Duca Strige
Tracklist
1. Witchwood
2. Goodbye Gemini
3. Lord Summerisle
4. Ballad Of The Weird Sisters
5. The Eldritch Dark
6. Drawing Down The Moon
7. Faunus
8. The Magician
DURATA: 40:52
"The Eldritch Dark", traducibile dall'inglese antico con "La Tenebra Soprannaturale", è il titolo del terzo album della formazione occult rock Blood Ceremony, e già la scelta di un termine anglosassone in disuso per titolare il disco, "eldritch" appunto, la dice lunga sulle suggestioni di cui vive la musica del gruppo. Il fascino per l'antico e l'esoterismo europeo, che ha sempre contraddistinto la poetica della formazione ed è stato sinora reso palese soprattutto dal suono rurale e pagano del flauto suonato dalla cantante Alia O'Brien, trova infatti su questo album vie ancor più marcate per manifestarsi, grazie alla presenza di due brani di puro folk rock, "Lord Summerisle" e "Ballad Of The Weird Sisters". Il primo è una sommessa ballata per basso elettrico, chitarra acustica, flauto e organo ispirata alla pellicola cult "The Wicker Man", scritta ed intonata dalla voce calda del bassista Lucas Gadke e splendidamente velata dalle armonie vocali di Alia. Il secondo, murder ballad a base di magia e omicidio, è segnato dalle venature di un violino indiavolato proprio come ai tempi dei Fairport Convention e degli Steeleye Span.
È quindi il carattere folk che già chiaroscurava i due lavori pubblicati precedentemente a prendere ora il sopravvento sul raffinato acid doom rock del gruppo e a conferire un deciso tono sinistro e atavico alle composizioni di "The Eldritch Dark", una propensione folk profondamente debitrice delle storie e dei suoni popolari della vecchia Inghilterra che, è bene ricordarlo, hanno poco a che spartire con le atmosfere festaiole spesso attribuite al termine "folk", e mettono piuttosto in scena omicidi irrisolti, amori sinistri e memorie pre-cristiane. Le lunghe fronde scure di questi due brani, posti al centro del disco, si allungano dunque sulle restanti canzoni e lì, tra radure ombrose e arcate gotiche, inebriati dai fumi psichedelici del classico arcigno doom rock dei Blood Ceremony, inizia il vero Sabba. Bimbi, streghe e capri si radunano al cerimoniale notturno di riff sabbathiani su "Witchwood", visioni distorte della vagheggiata Era dell'Acquario di stampo hippie invadono il singolo "Goodbye Gemini", melodicamente malizioso, e il doom più classico e profano torna a possedere la chitarra in "The Eldritch Dark", affine al suono primigenio dei Pentagram, e "The Magician", dove rientra in scena, dopo aver già visitato i Blood Ceremony sul precedente disco "Living With The Ancients", Oliver Haddo, stregone caricaturale protagonista del romanzo di William Somerset Maugham che porta lo stesso titolo della canzone.
In mezzo a questo baccanale di fauni, chitarre wah-wah e organi psichedelici, è doveroso notare come, nel tempo, la scrittura del gruppo si sia fatta più fine e concisa, capace di donare finalmente un carattere ben definito ad ogni singolo pezzo, in grado ora di funzionare da solo oltre che nell'economia del disco. Di questa maturità si giova pure il suono della band, che è diventato più nitido e ben amalgamato, mentre la voce poco appariscente della O'Brien, che non può contare sulle inflessioni soul di Jessica dei Jex Thoth o sulle robuste venature blues dell'ottima Jess dei Jess And The Ancient Ones, ha acquisito un perentorio registro teatrale che ben si addice alle sue movenze spiritate sul palco e all'impronta letteraria del gruppo. Risulta un po' piccino nei suoi quaranta minuti "The Eldritch Dark", ma è nella ricchezza di contenuti che ancora una volta i Blood Ceremony si rivelano maestri nell'evocare atmosfere macabre e pagane, confezionando un disco che dispiega sfacciatamente misticismo sonoro e lirico anni Settanta senza risultare derivativo. In questo album, e pure lungo tutta la discografia, i Blood Ceremony riescono a suonare talmente vittoriani che paiono sbucare da una grafica di Aubrey Beardsley, ed è facile dimenticare le loro origini americane, Ontario per la precisione. Bizzarri, davvero "eldritch" questi canadesi!
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Gruppo: Bolt Thrower
Titolo: The IVth Crusade
Anno: 1992
Etichetta: Earache
Provenienza: Regno Unito
Contatti: boltthrower.com - myspace.com/boltthrower
Autore: Akh.
Tracklist
1. The IVth Crusade
2. Icon
3. Embers
4. Where Next To Conquer
5. As The World Burns
6. This Time It's War
7. Ritual
8. Spearhead
9. Celestial Sanctuary
10. Dying Creed
11. Through The Ages
DURATA: 53:28
Venero realmente i Bolt Thrower: sarà perché a me le produzioni della Earache fanno sbavare come un cane idrofobo, sarà perché da quando è uscito "War Master" potrei scendere in battaglia con un cucchiaino da the e fare vittime sacrificali ugualmente, sarà per la voce di Willetts o per la batteria squadrata ma dannatamente impetuosa di Whale o per il riffing spaccamuri che oramai è un tratto distintivo assoluto. Fatto sta che attendevo questo "The IVth Crusade" con ansia e impazienza.
Arrivo ad acquistare il vinile, la copertina mi fa sussultare per la bellezza anche non si tratta di una immagine in stile Workshop, sul retro c'è un meraviglioso logo del Chaos che un amante di Moorcock come me non può che ammirare estasiato. Ci sono, piazzo l'LP sul giradischi e sono pronto alla celebrazione della nuova guerra!
All'attacco del pezzo omonimo mi cade la mascella per terra: è una badilata mid-tempo che non mi aspettavo, abituato alle sfuriate grind dei loro esordi. Un riffing tremendo e maledettamente contagioso mi pervade, la voce gutturale di Karl mi scarnifica l'anima, mentre il basso minimale di Jo, fedele alle mastodontiche chitarre, segue la scia di sangue che il quintetto sta mietendo. Nella lentezza il suono proposto dai Bolt Thrower trova una dimensione esasperata per potenza ed epicità, mi ritrovo a immaginare carneficine sulle note di "Icon" ed "Embers" dove gli assoli delle chitarre impazziscono e io con loro, Andy invece trova parti di doppia cassa su cui rovinarmi in headbanging sfrenati.
Tre pezzi sono pochi per dirlo, ma credo che questo disco sarà un capolavoro per il genere; se i nostri hanno abbandonato oramai in maniera inequivocabile le sonorità grind, godo però come un riccio nel dire che sono diventati delle divinità del Death Metal! Uno dietro l'altro difatti seguono a ruota brani esagerati senza il minimo calo: come potrei mai criticare pezzi come "Where Next To Conquer" o "Spearhead" su cui sbraito invasato come un demone supremo? Il delirio mi ha totalmente preso, il simbolo del Chaos regna nella mia camera e ne sono totalmente rapito, il mio "scapocciare" oramai sfiora la follia isterica.
La divione B.T. non possiede più remore e non accetta prigionieri, pretende sangue e urla, come ogni signoria della Morte giustamente rivendica dai propri tributari, e io sono qui a prestarmi alla loro "Ritual": "il cielo si fa nero [...] cadute sono le genti di una razza decadente [...] attraverso le ere [...]" in una guerra che è marchiata indelebilmente dalla "Quarta Crociata".
Sono esausto, esaltato, soddisfatto, la furia è passata, ma ristagna dentro il midollo spinale fino a quando le mie mani non girano nuovamente il disco per tornare a farlo esplodere in tutta la sua grandezza per sempre!
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Gruppo: Deathening
Titolo: Chained In Blood
Anno: 2013
Provenienza: Svezia
Etichetta: Rakamarow
Contatti: facebook.com/Deathening
Autore: Mourning
Tracklist
1. Self Impaled
2. Slave To The Kill
3. Bleed
4. Terminal Retribution
5. Beast Inside
6. The Living Burn
7. Ether
8. Prepare To Die
9. Lights Out
10. Butchered Souls Of No Tomorrow
11. Final Pearce Disdain
12. Cease
DURATA: 46:14
Devo essere sincero, il nome Deathening non mi diceva proprio nulla, sono arrivato ad ascoltare la musica di questi svedesi per puro caso, attirato dal fatto che il gruppo vede al suo interno ben tre membri dei defunti Murderplan e del gruppo stoner Supraload: parlo del batterista Arnold Lindberg e dei chitarristi Niklas Fridh e Pål Callmer. A completare la formazione del quintetto vi sono il bassista Pär Hallgren e il cantante Kalle Johansson, quest'ultimo con un passato trascorso negli ormai sciolti Embraced.
I Deathening sono musicisti che hanno già detto la loro all'interno del panorama melodic death e che hanno all'attivo un primo album, "Open Up And Swallow", che però non ho avuto modo di ascoltare, mi sono quindi fiduciosamente approcciato alla loro proposta, sperando di non ricevere una delusione dato che in questo ambito è sempre dietro l'angolo. Per fortuna posso affermare che la Svezia ha ancora molto da dire e da donare alle nostre orecchie, questo secondo capitolo "Chained In Blood" n'è ulteriore testimonianza. Chiariamoci: il disco è in tutto e per tutto legato allo stile Anni Novanta e miscela le scorribande del death e l'adrenalina dell'attitudine thrash della scuola di Gothenburg, palesando a più riprese le influenze originarie che forniscono ai pezzi in apertura come "Self Impaled" e "Slave To Kill" una carica detonante; soprattutto il secondo si fa valere grazie alla prestazione eccezionalmente incisiva sfoderata da Kalle dietro al microfono. Non vi sono pertanto novità o variazioni sul tema a rendere maggiormente appetibile la proposta, al contrario è il D.N.A. estrapolato da quel mondo nei suoi aspetti fondamentali, ad esempio lo sviluppo delle melodie e la cura nei cambi di tempo, a farne un lavoro gradevolissimo.
La scaletta, tralasciando un paio di lungaggini evitabili, non mostra dei cali evidenti, offre invece alcuni episodi interessanti come "Beast Inside" (nella quale è ancora la voce di Kalle a farla da padrone), "The Living Burn" (la cui sezione melodica andrebbe fatta ascoltare agli Arch Enemy per ricordare loro come si compone una canzone decente) e l'accoppiata che vede susseguirsi le arcigne e pestate "Prepare To Die" e "Lights Out". A mio avviso questi brani sono più che sufficienti, dato anche l'andazzo odierno, a far sì che "Chained In Blood" trovi i meritati riscontri presso gli appassionati del genere. Un plauso va fatto alle due asce, Niklas e Pål, che in più di una circostanza si dimostrano alquanto competenti anche nell'adornare i brani con pregevoli aperture solistiche, alle volte talmente ben fatte da ricordare il periodo d'oro del signor Michael Amott, che ahimè non ci farà più rivivere.
I Deathening sono una sorta di oasi felice che ci ripara dalle intrusioni delle voci femminili pulite non volute e dai ritornelli assurdamente frivoli e alle volte al limite con l'attitudine alla Justin Bieber, che ci tiene lontani dall'ennesimo inutile break di stampo "core", sono ciò che uno desidera avere all'orecchio quando pronuncia il termine "melodic-death". Certamente è possibile trovare a "Chained In Blood" qualche piccolo difetto, ma se amate il genere ne apprezzerete le doti: è solido, melodico e soprattutto death. Godetevelo!
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Informazioni
Gruppo: Archangelica
Titolo: Like A Drug
Anno: 2013
Provenienza: Polonia
Etichetta: Lynx Music
Contatti: facebook.com/pages/Archangelica/150602074959879
Autore: Mourning
Tracklist
1. Into Unknown
2. Like A Drug
3. Confession
4. Night Passage
5. Midnight Train
6. Cathedral
7. The Journey
8. Let Me Stay With The Trees
9. When All Is Gone
DURATA: 48:05
I polacchi Archangelica, dopo aver prodotto due demo (l'omonima nel 2007 e "Where Are You Now" nel 2009), si sono decisi a fare il passo che conta, dando alle stampe l'album di debutto. La formazione composta da Maciej Engel e Arek Gawdzik alle chitarre, Jakub Kolada al basso, Piotr Brzezicki dietro le pelli e Krzysiek Salapa alla voce ci consegna in "Like A Drug" una prestazione di prog-art-rock nella quale il comparto atmosferico tende a spadroneggiare sul resto. Il lavoro — pur ruotando sul fattore ambientale — lascia trapelare una sensazione d'incompleto legata proprio a quell'ambito che non sempre garantisce il supporto umorale richiesto.
Il quintetto mitteleuropeo ha le idee chiare, però l'intestardirsi su di una raffigurazione sonora spesso eterea e sognante caratterizzata da arpeggi di chitarra dilatati e un'interpretazione che si concentra sul versante evocativo da parte di Salapa, non sempre convincente ("Like A Drug") e a tratti monocorde ("Confession"), è uno dei motivi per i quali l'impianto atmosferico perde punti. La situazione invece migliora quando la sua voce viene coadiuvata da Natalia Matuszek, come avviene in "Night Passage", uno dei momenti culmine del disco. La soluzione potrebbe essere sì vincente, ma in questo caso risulta invece essere sinonimo di discontinuità in quanto il feeling nei frangenti in cui è presente solo Krzysie tende a ridimensionarsi, toccando l'apice della monotonia in "The Journey", pezzo decisamente interessante per il suo virare stilistico in direzione di un suono più scuro.
Eppure la prova dei chitarristi Maciej e Arek è particolarmente efficace sia in chiave di costruzione dei brani che nei momenti solisti, canzoni quali "Confession" e "Let Me Stay With The Threes" con la loro buona dose d'impatto e la delicata intro acustico-melodica "Into Unknown" rimarcano quest'aspetto. "Like Drug" in fin dei conti è un buon disco ed episodi come la magniloquente "Cathedral" (la cui apertura è affidata all'organo) e la conclusiva "When All Is Gone" (avvolta da quintali di pathos) rendono il giudizio complessivo maggiormente positivo.
Certamente c'è da rodare il modo in cui cambiano il passo, poiché un paio di volte è troppo netto lo stacco fra il librarsi in aria e lo scontrarsi quasi metallico con il quale diversificano la proposta; proprio su quest'ultimo aspetto si è forse puntato poco, peccato perché quando inseriscono un pizzico di vitalità in più nei brani questi ne ricevono giovamento.
Gli Archangelica sono ancora agli inizi, mi auguro avremo la possibilità di rivederli in futuro per poterne valutare la crescita e le scelte intraprese per affinare il sound; a oggi sono una realtà che deve ancora trovare un'identità precisa, dalle potenzialità evidenti, ma sfruttate solo in parte, attendiamo quindi una loro conferma e nel farlo v'invito a concedere un ascolto al disco.
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Gruppo: Hammerhands
Titolo: Glaciers
Anno: 2013
Provenienza: Mississagua, Ontario, Canada
Etichetta: Autoprodotto
Contatti: facebook.com/hammerhandstheband
Autore: Bosj
Tracklist
1. Floods
2. Analysis Paralysis
3. Glaciers
4. Meatbags
5. Lasciate Ogne Spreranza, Voi Ch'Intrate
6. Equus
DURATA 62:10
Canadesi, debuttanti, pesantissimi: tre aggettivi più che sufficienti per definire gli Hammerhands, quartetto di Mississagua, Ontario. Di nuovo, ci troviamo alle prese con l'eredità dei Neurosis e dei loro "figli", dagli Isis ai Pelican ai Cult Of Luna a quella serie sterminata di formazioni che, chi più chi meno, ha fatto dello sludge la propria missione.
Gli Hammerhands, dal canto loro, si attestano su coordinate che di ambient e atmosferico in generale hanno piuttosto poco, a meno che con quest'ultimo aggettivo non si intenda un unico riverbero di chitarra tirato e allungato per cinque, dieci, venti minuti. Il corpo centrale dell'operato dei Canadesi, infatti, è un monolitico, asfissiante e nero lavoro chitarristico che oscura più o meno tutto il resto, fatto salvo l'interludio "Lasciate Ogne Spreranza..." (sì, è proprio sbagliata la grafia da parte della band, non è una svista nostra). Posto che questo stupro citazionistico dura poco più di un minuto, è chiaro come nell'economia complessiva di "Glaciers" il suo valore sia estremamente circoscritto.
E allora chitarre, chitarre e chitarre, distorsioni, distorsioni e distorsioni. E poi effetti, fuzz, loop e ancora distorsioni. I testi e il cantato sono decisamente secondari rispetto alla strumentazione: la conclusiva "Equus", ad esempio, trenta minuti suonati di brano, vanta un testo di ben sette versi, il resto sono ventotto minuti di chitarra mononota che si trascina pachidermicamente attraverso l'abisso creato dagli Hammerhands.
Non c'è modo di dire se "Glaciers" sia un disco "bello", perché è troppo, troppo criptico e pesante per poter essere valutato in termini classici. Innegabile è che i ragazzi abbiano confezionato un'ottima autoproduzione, dal digipak (anche questo estremamente minimale e oscuro, fin nell'utilizzo di immagini e colori) ai suoni, come altrettanto innegabile è che questo album sia fottutamente impenetrabile. Una pesantezza, insondabilità e indecifrabilità incredibili permeano il primo lavoro degli Hammerhands, rendendolo un prodotto per pochi, e anche quei pochi, se non nella giusta predisposizione, potrebbero faticare ad apprezzarne i claustrofobici anfratti. Solo per stomaci forti.
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Gruppo: Wartime
Titolo: Solar Messiah
Anno: 2012
Provenienza: Bulgaria
Etichetta: Autoprodotto
Contatti: facebook.com/wartime.bg
Autore: Mourning
Tracklist
1. Dreams Of Pale
2. The Deepest Fear
3. Sanity
4. For One Moment In Time
5. Memories
6. Inner Sight
7. Endless Horizon
8. God's Sun Hours
9. Solar Messiah
10. The Day Of No Return
11. Palette Of Grey
DURATA: 49:18
I bulgari Wartime erano apparsi sul nostro sito nel 2011 con la recensione che il sottoscritto curò per la loro prima uscita intitolata "Against Destiny". Sul finire del 2012 la formazione — che nel frattempo ha perso Chewbacca alla seconda chitarra, sostituito da Nikola Hristov (in precedenza "ospite") — ha modificato il tiro: pur continuando a suonare un thrash metal tecnico, melodico e ancora in parte eccessivamente legato alle proprie influenze, ha cambiato le fonti di ispirazione, passando da Coroner e Mekong Delta a un suono più moderno a cavallo fra Nevermore e Communic, quindi ancora più "power" rispetto al passato; a ciò si aggiunge uno strato atmosferico malinconico talvolta esageratamente strabordante.
In verità, dopo che ebbi ascoltato il debutto, ero quasi certo che questi musicisti non avrebbero deluso le mie aspettative, non immaginavo però una sterzata così netta nello stile, dove la componente melodica e la ricerca del ritornello che ti rimane in testa sono divenute molto importanti, lo noterete sia in "The Deepest Fear" che in "For One Moment In Time". Questo concentrarsi sul lato emotivo più che sull'impatto è palese anche nell'uso del violino (suonato da Panayot Solakov) che adorna lo strumentale "Sanity", oltre che nell'incipit acustico e nella prestazione particolarmente intensa dietro al microfono del chitarrista e cantante Stan "Stumpy" Stancheff in "Memories"; si tratta comunque soltanto di alcuni episodi riscontrabili una volta inserito il cd nel lettore.
La vera pecca che s'insinua internamente a questo lavoro è il pregio stesso che lo rende interessante, parlo proprio di quel tentativo continuo di tirare in ballo le emozioni: alle volte c'è una certa esagerazione, con i toni dolciastri che tendono a emanare un grigiore sin troppo pacato che pare ottenere l'effetto contrario di un appiattimento; per spezzarlo è necessario quindi sfoderare la voce in growl, al fine di rendere più aggressive un paio di circostanze, e inserire assoli mai troppo ingombranti e sempre ben posizionati, alcuni dei quali vengono eseguiti dall'ultimo entrato Hristov (in "Dreams Of Pale" ed "Endless Horizon"); oppure per diluirlo vengono aggiunte le tastiere che forniscono al sound profondità e ricercatezza maggiori, ad esempio in "Solar Messiah", grazie a Zhivko Koeve.
Considerando i valori e i difetti del lavoro dei Wartime, viene da chiedersi perché un disco ben prodotto, composto e suonato debba rimanere privo di un'etichetta, mentre gli ultimi arrivati appena usciti dalla sala prove e senza uno straccio d'idea personale entrino a far parte di roster blasonati come quello della Napalm Records o della Massacre Records: la risposta plausibile a tale dubbio purtroppo la conosciamo o la possiamo comunque immaginare un po' tutti.
Inutile dilungarsi ulteriormente, dalla descrizione avrete inteso a chi possa risultare interessante "Solar Messiah": non esitate, date spazio a questa band.
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Gruppo: The Coffeen
Titolo: You Must Be Certain Of The Coffeen
Anno: 2013
Provenienza: Italia
Etichetta: Moonlight Records
Contatti: facebook.com/thecoffeen
Autore: Dope Fiend
Tracklist
1. Zombies For Breakfast
2. Fistfuck Rising
3. Satan Is Pop
4. Zombie's Bar
5. The Coffeen
6. When The Telephone Doesn't Ring
DURATA: 31:18
Dall'etichetta parmigiana Moonlight Records escono allo scoperto i The Coffeen, trio formato da Andrea Giuliani (voce e basso, nonché proprietario della Moonlight Records stessa), Giampaolo Rossi (batteria) e Matteo Folegatti (chitarra) la cui opera prima è intitolata "You Must Be Certain Of The Coffeen". In poco più di trenta minuti di musica, i nostri svelano gran parte delle loro influenze e ci offrono sei pezzi che, pur non avendo nulla di originale o particolare, diventano una compagnia decisamente gradita.
"Zombies For Breakfast" e "Satan Is Pop" si articolano come riusciti impasti di Doom classico, rad(issim)e spruzzate di certo Rock a tinte gotiche e una prepotente venatura Punk. Quest'ultimo elemento, per quanto non così preponderante, svolge certamente un ruolo fondamentale nell'apparato sonoro dei The Coffeen; se poi abbiniamo il tutto alle atmosfere orrorifiche da B-movie che velano i pezzi, non sarà difficile ricondurre la memoria ai Misfits, senza mai dimenticare quella spolverata di attitudine alla Melvins che ogni tanto riecheggia tra le note. Episodi come "Fistfuck Rising" e "When The Telephone Doesn't Ring" affondano invece le proprie radici nello Stoner Rock più puro, lineare, energico e grezzo. Poco da dire: suoni del genere non necessitano di certo di presentazioni di alcun tipo, dal momento che i riff snocciolati sono pane quotidiano per chiunque abbia tra le proprie preferenze musicali Kyuss e compagnia desertica. Il meglio del lavoro è però rappresentato dalle inequivocabili dinamiche settantiane che danno vita a "Zombie's Bar", pezzo languido e sporco che si basa su certe movenze molto vicine ai mai troppo osannati lavori di Danzig, "Lucifuge" su tutti. Di nuovo, lo spettro artistico del summenzionato Danzig (sempre sia lodato) viene evocato, seppure in un contesto più muscolare, da "The Coffeen": una traccia semplice, ma accattivante e pesante, che potrebbe sicuramente essere un buon cavallo di battaglia in sede di concerto.
La conclusione è semplicissima: "You Must Be Certain Of The Coffeen" è un disco composto e suonato da gente indubbiamente competente; un disco passionale e genuino che, sebbene di durata ridotta, può già essere oggetto di interesse da parte di tutti coloro che amano questo tipo di proposte. Per me, i The Coffeen sono promossi senza riserve!
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VIDEOGAME
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Titolo: Sam & Max: Hit The Road
Sviluppatore: Lucasarts
Distributore: Lucasarts
Anno: 1993
Piattaforme: PC
Autore: Istrice
Anni '90, gli anni d'oro delle avventure grafiche, gli anni d'oro della LucasArts (fu Lucasfilm Games). Anni indimenticabili per gli amanti del "punta & clicca", del mai abbastanza celebrato "ScummVM" ideato dal genio di Ron Gilbert. Quel Ron Gilbert. Quello di "Monkey Island". Avete presente? Sì? Bene. No? Vergognatevi. E informatevi. E giocate.
Tra le menti eccelse alle prese con le perle LucasArts di quel periodo spicca l'anarchismo malato di Steve Purcell, autore del fumetto "Sam & Max" e mente creativa dietro al gioco in questione, "Sam & Max: Hit The Road", una suggestiva, comica e grottesca avventura che vede come protagonisti il detective canino e il suo psicopatico socio leporide alle prese con la scomparsa di un piedone dal circo. Il percorso che li porterà alla verità li condurrà parimenti attraverso gli Stati Uniti, in un viaggio on the road tra personaggi cinici e caricaturali, alla scoperta delle perversioni e delle stranezze di una America dai tanti lati oscuri, pennellando con ironia una pungente favola satirica.
Un gioco che travalica il concetto di assurdo. O forse, trattando di americani, non lo travalica affatto.
SERIE TV
Informazioni
Titolo: 2 Broke Girls
Ideatore: Michael Patrick King, Whitney Cummings
Anno: 2011
Stagioni: 2 (46 episodi sinora)
Produzione: Warner Bros. Television
Provenienza: U.S.A.
Autore: Mourning
Due ragazze si incontrano: una cinica, sarcastica e totalmente disincantata; l'altra "snobbina", un po' caduta dalle nuvole e fuori dal suo mondo naturale a causa di un padre arraffone. Sono Max e Caroline, così estremamente diverse così unite, diverranno dapprima colleghe cameriere in una tavola calda di Williamsburg (Brooklyn) nella quale sono, e saranno, costantemente a contatto con personaggi divertenti come il cuoco ucraino rocambolescamente ossessionato dal sesso Oleg, il proprietario in miniatura Han e la "black soul" vecchia e saggia Earl. E da lì... da lì parte l'avventura. Fornirvi ulteriori dettagli vi toglierebbe il piacere di scoprire quale sia la vena imprenditoriale che le legherà ancora di più, quali siano i progetti e chi le aiuterà o meno a realizzarli. Godetevi una serie che tra battute al vetriolo, doppi sensi e dialoghi nonsense ne regala davvero delle belle, il perbenismo qui non è di casa.
LIBRO
Informazioni
Scrittore: Edlef Köppen
Titolo: Bollettino Di Guerra
Anno: 1930 (tradotto 2008)
Provenienza: Germania
Editore: Mondadori
Autore: Edlef Köppen
Sono tanti i libri apparsi sul tema delle guerre, ma relativamente pochi, se si pensa al significato avuto da questo conflitto, parlano della Grande Guerra. La Prima Guerra Mondiale ha avviato una serie di innovazioni tecnologiche che hanno contribuito a cambiare il Mondo e a canalizzarlo in un'evoluzione che continua ancora oggi.
Edlef Köppen era un artigliere ed è sopravvissuto a quattro anni di tortura fisica e psicologica su un fronte pieno di sudore, sangue, dispiaceri, delusioni e morte. "Bollettino Di Guerra" è un diario narrato in prima persona sotto forma di novella, che racconta il lento rassegnarsi di un combattente pieno di sé all'inizio, a confronto poi con le prime disfatte e la perdita costante di camerati. Ho incontrato finora raramente un utilizzo di visioni letterarie tanto crude per illustrare la realtà di un soldato disperato che trova la forza nella sua penna, nei suoi ricordi dei tempi che furono e nella felicità (o nella delusione?) di essere sopravvissuto un altro giorno. Questo lavoro al momento della sua pubblicazione trova riscontro solo presso pochi interessati, affascinati dal nuovo stile di scrittura che collega esperienze individuali con paragrafi estratti da ordini militari e articoli di giornale.
Il libro mi ha lasciato davvero amareggiato, non per la qualità, ma per la durezza e la dolorosa capacità di proiettare sullo schermo della fantasia una realtà che pare attuale come non mai, anche se sono passati quasi cento anni dalla fine di quel conflitto unico nella storia umana.
LIBRO
Informazioni
Scrittore: Marcel Proust
Titolo: Alla Ricerca Del Tempo Perduto
Anno: 1913 - 1927
Provenienza: Francia
Editore: Vari
Autore: 7.5-M
La nostra immagine della realtà, ciò che la nostra memoria e la nostra immaginazione ci fanno sovrapporre a quello che esiste fuori di noi, è la base delle nostre esperienze e la loro ragione. Quante sono le verità sull'abitudine, sulle necessità dei bisogni, sulle relazioni e sulla fascinazione che Proust ci mostra, tante sono le menzogne che ci racconta. Ma per noi lettori non saranno mai menzogne, al più finzioni, in quanto sono verità per lui, essendo l'unico se stesso attraverso cui filtrare la realtà, ovvero l'unico se stesso al quale attingere nell'opera della scrittura. E a questo punto diventano verità anche nostre, perché sincere. Proust costruisce un'opera che racchiude tutta la realtà: la sua realtà. Ed è perfetta. Non ci risparmia nulla e si estende, come la memoria, da un dettaglio a un altro, fino a comporsi, enorme come la nostra immagine della realtà.
Scrive W. Benjamin su Proust: "Se i romani chiamavano un testo il tessuto, è difficile trovarne uno che lo sia di più e sia più fitto di quello di Marcel Proust. Il suo editore Gallimard ha raccontato come il modo in cui Proust usava rivedere le bozze costituisse la disperazione dei compositori. Le bozze tornavano sempre indietro scritte fino all'orlo. Ma non era stato corretto neanche un errore di stampa; tutto lo spazio disponibile era stato riempito di nuovo testo."
FILM
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Titolo: Mega Shark Vs Giant Octopus
Regista: Jack Perez
Anno: 2009
Produzione: David Michael Latt
Provenienza: U.S.A.
Autore: M1
"Mega Shark Vs Giant Octopus" è la dimostrazione di come si possa creare un culto (di serie Z) senza che nemmeno un singolo elemento del film analizzato in fase di critica raggiunga la benché minima soglia delle sufficienza (o della decenza?). Bastano due mostri marini ancestrali risvegliati dall'Uomo che lottano fra loro come i più acerrimi nemici e poco altro...
Potrei narrarvi la tragica e debole trama fantascientifica e le scene che sfidano ogni legge della fisica oppure accennare ai dialoghi ai limiti dell'assurdo o all'interpretazione di un cast tutt'altro che trascendentale, senza dimenticare effetti speciali che sarebbero stati considerati indegni già quaranta o cinquanta anni fa per i cosiddetti "b-movie" dell'epoca. Eppure sarà soltanto la visione del mega squalo che balza dal mare fino alla quota di un aereo di linea per "addentarlo", insieme alla presenza del "Renegade" Lorenzo Lamas, a farvi capire quali livelli di bruttezza raggiunga questo film, indipendentemente dai canoni coi quali lo si analizzi: siano essi quelli del tipico frequentatore di cinema multisala o del fanatico degli splatter più beceri.
Non c'è tensione, non c'è umorismo, non c'è nulla: dopo la visione si resta esterrefatti e sbigottiti, quasi imbarazzati. Esortarvi a non guardare "Mega Shark Vs Giant Octopus" sarebbe vano, poiché una tale dose di "turpitudine" possiede una forza attrattiva inaudita e ineguagliabile, quindi beccatevi 'sti novanta minuti e soffrite!
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Gruppo: The Beyond
Titolo: Frostbitepanzerfuck
Anno: 2013
Provenienza: U.S.A.
Etichetta: Horror Pain Gore Death Productions
Contatti: facebook.com/thebeyond999
Autore: Mourning
Tracklist
1. Roto-Cunt
2. Goat Sodomizer
3. Cunt Sucking Cannibal [cover G.G. Allin]
4. Frostbitepanzerfuck
5. Attack Of The Zombie Brigade
6. The Splatterhouse Maniacs
7. Necro Overload
8. Exterminate Humanity
DURATA: 28:26
"Zozzo è divertente": questo sembra essere il motto che guida i The Beyond, formazione statunitense che debutta con una proposta godereccia miscelante punk, hardcore, speed e thrash in salsa black con l'album "Frostbitepanzerfuck".
Che i Darkthrone in questi ultimi anni siano stati gli apripista di un revival "old school" che guarda indietro sino alle radici del metal, credo sia fuori di dubbio: si amino o meno, i norvegesi sono stati e sono d'esempio per tanti. Tra questi certamente figurano anche i musicisti provenienti da Harrysburg, Pennsylvania, che si ispirano anche a D.R.I. ed Hellhammer, e a cui credo non importi nulla di apparire derivativi dato che un disco simile, rudimentale e dall'attitudine gore, non ha alcuna intenzione di perseguire chissà quale ricerca stilistica. La composizione difatti è scarna, le tracce se la giocano tirando in ballo per lo più una salutare voglia di "scapocciamento", che in alcune occasioni convince in maniera evidente ("Goat Sodomizer", "Frostbitepanzerfuck" e "Attack Of The Zombie Brigade"). Le strutture si mantengono lineari: il riffing "tremolante" e le scorribande sul rullante del batterista Luke Sweger (Horde Of The Eclipse) servono solo a diversificare, nemmeno molto, una scaletta che si trascina dietro quella semplicità voluta da coloro che suonano godendosi il momento. La cover di "Cunt Sucking Cannibal" di G.G. Allin e il pezzo "Necro Overload" lo testimoniano in maniera cristallina.
La produzione è una mezza sorpresa. In dischi del genere solitamente ti attendi un suono sporco e ruvido, invece è abbastanza pulita e sia la strumentazione che la prestazione del cantante-chitarrista Danny Starkiller possiedono una chiarezza inattesa, ma comunque piacevole.
Non c'è da riflettere quando si infila nello stereo "Frostbitepanzerfuck", già sai a cosa andrai incontro. Nessuna mezza misura né concessioni a contatti con l'era odierna: è l'ennesimo tributo al passato che potrà essere stimato da coloro i quali vivono per album così e odiato dai restanti. Scegliete da che parte schierarvi e di conseguenza saprete quanto e come i The Beyond entreranno a far parte dei vostri ascolti.
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Gruppo: Kause 4 Konflikt
Titolo: No Better Friend - No Worse Enemy
Anno: 2013
Provenienza: Francia
Etichetta: Built To Rock
Contatti: facebook.com/Kause4konfliktofficial
Autore: Mourning
Tracklist
1 The Call (Intro)
2 Holes Of Emptiness (The Loss Of Innocence)
3 Overwatch (Murphys Law)
4 Semper Fi (The Rifleman's Creed)
5 Sw.M16 (Iron Deadly Thought)
6 Red Mist (Spektr Gemini)
7 Soldier’s Carrion (Bastardz Scoutts)
8 Geneva Memorandum (Jus And Bellum)
9 Line Of Hate (Shrapnel Of Gods)
DURATA: 33:18
I Kause 4 Konflikt sono una creatura nuova di pacca nella quale militano (termine adatto per l'occasione) membri di Otargos, Psoriasis e No Return. La band francese si presenta al pubblico con il suo "Warcore" che altro non è se non una miscela di death / thrash con uno spirito combattivo spiccatamente hardcore al proprio interno: quindi immaginate un campo di battaglia fatto di riff pesanti in stile mattone, creati dal duo di chitarristi formato da RKG e JDZ, tesi a fornire il groove per addensare e ingrigire l'aria come fosse ricolma di polvere da sparo e una prestazione sia vocale, a opera del già nominato RKG, che ritmica, confezionata dal duo ARX e BBK (rispettivamente al basso e alla batteria) che sostiene la situazione con solidità e andature minacciose.
Voi direte: cosa c'è di nuovo in tutto ciò? Nulla in effetti. I temi e il modo di scagliarsi all'orecchio dell'ascoltatore porteranno alla ribalta influenze varie e riconoscibili che non sto nemmeno a elencarvi, è però palese che i francesi siano concentrati e decisi nel colpire il proprio obbiettivo e che vi riescano senza troppi problemi, infatti dopo l'entrata in scena annunciata da "The Call", che ci schiarisce sin da subito le idee, si susseguono una serie di brani che privi di freno infilano una martellata dietro l'altra. Queste bastonate sono orientate a utilizzare il fattore "core", ponendolo in rilievo in episodi come "Semper Fi" ("semper fidelis" è il motto usato in passato dalla milizia fascista e odiernamente in uso fra i granatieri svizzeri e nel corpo dei Marines statunitense) e "Soldier's Carrion", sezioni thrash pronunciate in "Overwatch" e "Red Mist", puntando sulla prestanza e pesantezza del batterista in "Holes Of Emptiness" e "Geneva Memorandum", e approfittandosi del coinvolgimento fornito dai cori riscontrabili in molte delle tracce già citate e "Sw. M16". Sul piatto vi viene servita una badilata a cui non vale la pena chiedere il perché suoni volutamente così, ma che conviene accette per com'è senza porsi domande inutili.
"No Better Friend - No Worse Enemy" legna, legna continuamente, ogni tanto troviamo pure delle discrete aperture solistiche che gli permettono di prendere respiro: accade a esempio nella conclusiva "Line Of Hate", ma non è l'unica e la produzione svoltasi ai Drudenhaus Studio fa in modo che il suo essere guerrigliero non venga intaccato; peccato però che il basso di ARX ne esca penalizzato, per non dire annullato, dispiace dato che quella "presenza fantasma" nel mix avrebbe potuto fornire ulteriore slancio all'arrembante lavoro messo in atto da lui e BBK.
I Kause 4 Konflikt, tralasciando qualche difetto e una forma derivativa inevitabile al giorno d'oggi, mostrano di saperci fare e di rivolgersi a coloro che vogliono e desiderano ascoltare un disco che si esprima violentemente e privo di rimorsi nel farlo. Se siete fra questi, un passaggio nello stereo dovreste quantomeno concederlo.
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Gruppo: Lo!
Titolo: Monstrum Historia
Anno: 2013
Provenienza: Australia
Etichetta: Pelagic Records
Contatti: facebook.com/lookandbehold
Autore: Mourning
Tracklist
1. As Above
2. Bloody Vultures
3. Ghost Promenade
4. Caruncula
5. Haven, Beneath Weeping Willows
6. Fallen Leaves
7. Crooked Path - The Strangers Ritual
8. Lichtenberg Figures
9. Bleak Vanity
10. Palisades Of Fire
11. So Below (Before We Disappear)
DURATA: 41:19
Gli australiani Lo! si erano fatti notare nel 2011 con il debutto "Look And Behold", trascorsi due anni, la band è ancora sotto contratto con la Pelagic Records ed è pronta a darci dentro alla grande con il nuovo "Monstrorum Historia"; il cui titolo è stato ripreso dall'opera del naturalista nostrano Ulisse Aldrovandi. L'hardcore / sludge della band è una mattonata considerevole, roba che i fan di Converge, Breach, Cursed, Old Man Gloom, Mastodon e Baroness (ovviamente di quest'ultimi due prendete in considerazione le versioni più intransigenti) si godrebbero sparata a tutto volume nello stereo con l'intento di abbattere i muri di casa ed effettivamente con macigni carichi di violenza quali "Caruncula" e "Fallen Leaves" quel risultato sarebbe praticamente a portato di mano.
Questi ragazzi menano che è un piacere, tuttavia non si limitano esclusivamente a scaraventarsi contro l'orecchio, usufruendo dell'impatto come unica soluzione per l'attacco, vi sono infatti attimi distensivi e al limite con lo psichedelico in "Haven, Beneath Weeping Willows", mentre "Lichtenberg Figures" è composta da una serie di assemblaggi stilistici vari ed efficaci, risentendo positivamente degli influssi punk e di quelli anneriti. Canzoni come "Ghost Promenade" e "Palisades Of Fire" invece contengono una ruvidità ronzante e una sorta di carica epica che lasciano il segno.
I Lo! sono una realtà che sta proseguendo il proprio cammino in direzione di una piena e gratificante maturazione, suonare live con costanza ha sicuramente giovato, avendo avuto il piacere di condividere il palco con EyeHateGod, Russian Circles, Doomriders, The Ocean e Burning Love, continuando su questa strada sono sicuro si regaleranno, e ci regaleranno, parecchie soddisfazioni. Non perdeteli d'occhio e soprattutto date in pasto al vostro stereo "Monstrorum Historia", per me l'acquisto di un disco simile ci scappa...
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Gruppo: Ogdru Jahad
Titolo: I
Anno: 2013
Provenienza: Danimarca
Etichetta: Iron Bonehead
Contatti: facebook.com/OgdruJahad.DK
Autore: ticino1
Tracklist
1. Intro
2. Profane Devastation
3. Unholy Blessings
4. Empty Jehovah
5. Glories Of Mary
6. Necromantic Rites
7. Hobo Of Nazareth
8. Weeping Of Angels
9. Sacred Sodomy
10. Unclean Birth
11. It Is Done
DURATA: 30:46
Per alcuni potrà essere paradossale denominare il proprio gruppo di bestial black metal Ogdru Jahad, altri come me, invece, apprezzeranno la scelta coraggiosa di un nome proveniente dai fumetti per un tale progetto. La casa tedesca Iron Bonehead ha preso sotto contratto questo quartetto danese dopo due demo uscite durante le primavere 2011 e 2012.
Inizio con i fatti concreti. È raro incontrare formazioni in questa nicchia del black che perdano il loro tempo suonando assoli di chitarra; Necrocalvis s'impegna a dare un tocco di personalità alle canzoni con delle scale stridule, a volte curiose, che s'inseriscono come un fulmine a ciel sereno nel complesso della lunatica meteorologia compositiva. La musica dei danesi è da questo lato più variegata di altra, se posata sulla bilancia del bestial black metal.
Affermai a più riprese che nel genere citato un'evoluzione sarebbe stata utopica e priva di senso. Gli Ogdru Jahad sembrano volermi contraddire un pochino. Non fraintendetemi: la musica in generale rispetta i canoni e soddisfa le pretese degli adoratori del cuoio e dei chiodi da venti. Se volete avere un'idea concreta su che cosa vi aspetti ascoltando questo lavoro, gustatevi "Sacred Sodomy" che contiene tutti i punti chiave del suono della formazione: marciume, linee vocali bestiali, assoli satanici e una batteria martellante come un bombardamento a tappeto. L'unico aspetto veramente negativo per i miei gusti è il senso di ripetizione ossessivo che trovo confrontando alcune canzoni contenute nel pezzo di vinile; questi rende alla lunga l'ascolto un poco noioso.
All'attacco, all'attacco comunque, signori, l'ultimo che lascia la trincea sarà il primo a morire!
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Information
Band: Amon Amarth
Title: Deceveir Of The Gods
Year: 2013
From: Sweden
Label: Metal Blade Records
Contacts: facebook.com/OfficialAmonAmarth
Author: M1
Translation: LordPist
Tracklist "Deceiver Of The Gods"
1. Deceiver Of The Gods
2. As Loke Falls
3. Father Of The Wolf
4. Shape Shifter
5. Under Siege
6. Blood Eagle
7. We Shall Destroy
8. Hel
9. Coming Of The Tide
10. Warriors Of The North
RUNNING TIME: 47:52
Tracklist "Under The Influence"
1. Burning Anvil Of Steel
2. Satan Rising
3. Snake Eyes
4. Stand Up To Go Down
RUNNING TIME: 15:26
As a loyal Amon Amarth fan, I have tried to avoid listening to any previews for their new album "Deceiver Of The Gods", pre-ordering it for the purpose of receiving the package as close as possible to the European release date, June 24 2013. The limited digipak version I have received is a small box — decorated with a wooden-effect — which contains a richly-illustrated thin cardboard envelope, in turn enclosing the CD and the booklet themselves. In addition, Metal Blade went on to include a double-face poster with the cover artwork (which I didn't appreciate at all, because it's too "fantasy" oriented) and a picture of the band, there is also the EP "Under The Influence" in CD-pro format. I hope I can be forgiven if I've spared myself the trouble of adding the 90 additional euro required to purchase the ultra-limited edition, which came with a Loki bust: it didn't fit very well within my furniture...
Having closely followed my favorite Vikings through the years, I perfectly knew what to expect, since their death metal has become more and more melodic and "round" starting from 2006; the sound has been totally polished and they went on seeking the effective refrain to play during live shows. "With Oden On Our Side" and "Twilight Of The Thunder God" represented two amazing and really fresh (for Amon Amarth standards) efforts, signaling a second youth for the Stockholm quintet. Unfortunately, the previous album "Surtur Rising" had already caused some alarm bells to ring, their intensity has now risen to levels impossible to ignore.
These ten new tracks totally lack thrust, thus voiding several good ideas that might have been developed in a better way. The power that you might have expected from Andy Sneap's production just feels closeted and never transforms into sheer aggressiveness, consequently conveying a feeling of dull and "digital" castration. For example, "Shape Shifter" — despite being solid and massive — can't but make us look back on the Amon Amarth of some years ago, while "We Shall Destroy" — with its straightforward manner — sounds more convincing. Not only there's no trace of the Vikings' raw ardor, but the melodies have become way too "easy", with many choruses just squeezed here and there in the songs (as in "Shape Shifter"), sometimes watering down the momentum so devotedly constructed in the rest of the song ("Father Of The Wolf"). There are, though, some compositions that don't feature such pompous choruses ("Blood Eagle"), or lacking any refrain whatsoever. The above analysis results in an album we might define as "heavy", with all the pros and cons this label may mean for a death metal band.
However, Johan Hegg and the others haven't totally exhausted their ideas yet, so they are still able to deliver a few pleasant moments: namely the tragic phrasing in "As Loke Falls", accompanied by the usually mighty growl and Ted Lundström's massive bass tone lashing about in the air. The riffing of the severe "Under Siege" (finally) gets epic in the second half. The last part of the album displays the less canonical tracks, the first of which features the legendary Messiah Marcolin (ex-Candlemass) on guest vocals: "Hel" evolves from a doom-oriented sound, with almost charming choruses and the clean guest voice alternating with the band's typical rough style, consequently resulting in a slight increase in the album's variety. In the end, "Warriors Of The North” puts an end to the conflict, rarefying the atmosphere and exposing a less linear structure. These eight minutes end up leaving a bittersweet flavor on our mouths, both because of the fatalistic aura sparked by their sound and of the doubts this listen failed to erase.
"Under The Influence" is nothing but a flashy divertissement: in this four-track EP, Amon Amarth pay homage to Judas Priest, Black Sabbath, Motorhead and AC/DC. They have preferred to record this kind of bonus cd instead of the usual covers, but still I hardly think it will be remembered.
In conclusion, I can't but consider "Deceiver Of The Gods" a trifling album, both compared to the general metal scene and to Amon Amarth discography, where it gets bested by any other of their works. Differently from the previous album, here it seems that none of the interesting sparks goes on to evolve into a concrete result; also the total lack of thrust is too evident to be ignored. Where has the epic and combative Viking spirit — a peculiar trait of their death metal — gone? The Swedish band has already missed the target twice, an eventual third failure would definitely signal their artistic end even to the eyes of the most-devoted of their fans (like myself), who strived to find a reason to appreciate these songs, but can't ignore their obvious weaknesses.
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Informazioni
Gruppo: Ultra Violence
Titolo: Privilege To Overcome
Anno: 2013
Provenienza: Italia
Etichetta: Punishment 18
Contatti: facebook.com/ultraviolencemetal
Autore: Mourning
Tracklist
1. Spell Of The Moon
2. L.F.D.Y.
3. Order Of The Black
4. Stigmatized Reality
5. Restless Parasite
6. Turn Into Dust
7. The Voodoo Cross
8. You're Dead!
9. The Beast Behind Your Back
10. 10,000 Ways To Spread My Hate
11. Metal Milizia [cover Ira]
12. When Future & Past Collide
13. Ride Across The Storm
DURATA: 57:18
I piemontesi Ultra-Violence erano una promessa in attesa d'esser mantenuta, la band con l'ep "Wildcrush" aveva lanciato il sasso nello stagno agitando le acque, toccava quindi dare sostanza alla mossa compiuta, dimostrando di poter andare oltre il semplice smuoverle e a questo ci pensa il debutto "Privilege To Overcome".
Il quartetto composto dalle due asce Loris Castiglia (anche cantante) e Andrea Vacchiotti, dal bassista Roberto "Robba" Dimasi e dal batterista Simone Verre prosegue sulla strada intrapresa con il mini: il sound è basato sulla passione riversata dagli artisti nostrani nei confronti del thrash della vecchia scuola proveniente sia dalla Bay Area che dalla scena teutonica, abbiamo quindi a che fare con una prestazione robusta, corposa, frequentemente arrembante nell'impostazione ritmica, che mette sul piatto delle belle badilate come "L.F.D.Y.", "Restless Parasite", "Turn Into Dust" e "The Beast Behind Your Back". La band palesa una discreta propensione al variare, è cazzuta "Order Of The Black", nella quale troviamo in qualità di ospite Simone Mularoni (Dgm ed Empyrios), ed è anche melodicamente piacevole, mentre è invece forse un po' tirata per i capelli "The Voodo Cross" in cui appare la figura di Tony "Demolition" Dolan (Atomkraft, M-pire Of Evil, ex Venom e Mantas).
Il gruppo dimostra di saper spingere sul lato "core" nell'esecuzione in stile mordi e fuggi di "You're Dead" e di non aver timore nell'estremizzare la proposta, infliggendo delle sonore batoste in "10,000 Ways To Spread My Hate", dove Verre picchia sul rullante e velocizza la situazione in maniera prolifica, e in "Ride Across The Storm" dotata di un incipit annerito. Gli Ultra-Violence stanno crescendo e il riffing dell'opener "Spell Of The Moon", qualcosa di fantastico e ispirato, è l'ennesimo segnale che ne risalta le doti. Il passato per questi quattro ragazzi torinesi è fonte continua dalla quale attingere e l'omaggio rivolto ai loro corregionali Ira con "Metal Milizia" (pezzo pubblicato nel lontano 1985 e contenuto nell'unico demo "Power In Black") è solamente un ulteriore tassello che si va a inserire al posto giusto in un congegno che risulta ben oliato.
"Privilege To Overcome" è ben prodotto, il lavoro del già nominato Simone Mularoni svoltosi ai Domination Studio di Imola è pregevole, graficamente è supportato da un'opera orientata a richiamare il capolavoro di Stanley Kubrick "Arancia Meccanica" che porta la firma di Ed Repka (chi non conosce questo signore?); quale difetto gli si potrebbe addossare? I detrattori, quei "gentlemen" che vivono per contrastare e contestare tutto ciò che è prodotto al di fuori delle decadi storiche, soprattutto se rilasciato in Italia, tireranno fuori la solita manfrina sulla mancanza di personalità, sul nulla di nuovo privo di emozione e via dicendo, una critica che in parte potrebbe esser anche più che condivisibile in alcune occasioni, ma non mi sembra questo il caso. Quindi se dovessi cercare il cosiddetto pelo nell'uovo, forse, e dico forse, lo troverei nell'eccessiva lunghezza dell'album che, con una scaletta lievemente più contenuta sarebbe potuto essere ancora più diretto e decisivo nell'intento, tuttavia è questione di gusto, sono sicuro che ad altri andrà più che bene così com'è.
Tirando le somme: la promessa di cui scrivevo in testa alla recensione è stata mantenuta, i torinesi iniziano a brillare, non abbiamo fra le mani un capolavoro, ma un bel disco di salutare, vivace e ben suonato thrash. Augurandoci che questo sia solo il primo passo di un'avventura che porti loro ulteriori soddisfazioni in futuro, vi consiglio vivamente d'ascoltarlo. È la conferma di come il nostro panorama metal non sia per nulla inferiore a quello di nazioni maggiormente quotate, è il supporto che manca... ma quello si sa, è storia vecchia, troppo vecchia.
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