lunedì 29 aprile 2013

ARCHON - Ouroboros Collapsing


Informazioni
Gruppo: Archon
Titolo: Ouroboros Collapsing
Anno: 2013
Provenienza: New York City, NY, USA
Etichetta: The Path Less Traveled Records
Contatti: archondoom.com - facebook.com/archondoom
Autore: Bosj

Tracklist
1. Worthless
2. Desert Throne
3. God's Eye
4. Masks

DURATA: 47:20

DOOOOOOOOOOOOOOOM. L'unico pensiero coerente (?) che rimane dopo l'ascolto della seconda fatica degli Archon (della prima, "The Ruins At Dusk", potete leggere qui) è un'unica, semplice parola. Tonda, dal suono pieno, pregna di sfumature e angolazioni, indefinita eppure esaustiva. Perchè qui, signori, c'è una sintesi di un po' tutto quello che il doom ha proposto nelle ultime decadi, o quasi.

Nonostante i suoni pastosi e la produzione da scantinato, insieme più grande limite e innegabile pregio del disco, "Ouroboros Collapsing" è un album che prende e trascina con sé, giù, sempre più giù, nel ciclico vortice dell'Uroboro. Un lavoro in grado di citare, ma mai plagiare, di rimandare, ma mai copiare, e di sorprendere quando meno ce lo si aspetta. Si parte con una base sintetica, qualche nota lenta e cadenzata, sparuti colpi di rullante che fanno dell'apertura di "Worthless" uno dei momenti di maggiore pregio del lavoro tutto. I facili riferimenti agli Shape Of Despair però non devono ingannare, nemmeno quando la voce della brava Rachel Brown si erge a guida dell'ascoltatore con il suo cantato etereo e inafferrabile: questa è New York, e a New York niente è ciò che sembra, tutto si mesce e si ibrida.

Non devono quindi stupire, dopo un inizio atmosferico e al limite della darkwave, dieci minuti di riffing massiccio, cadenzato, claustrofobico. Alla voce della Brown, che in un battito di ciglia è passata ora a un tono graffiante ed esasperato, si aggiunge quella di Chris Dialogue, portatore di un growl pieno e profondo, e di etereo non è rimasto proprio nulla. Ciò che rimane è l'angoscia, è l'oscurità, ora amplificata da effetti e synth più cupi che mai. Con "Desert Throne" i tempi accelerano, dal funeral si passa allo sludge, a chitarre che ricordano da vicino ciò che sarebbe rimasto dei Neurosis di primi anni '90 la cui vena hardcore si fosse prosciugata. Eppure, anche qui, a brano avviato si torna a rallentare, stavolta per lanciarsi verso territori più psichedelici e classici, oserei dire "sabbathiani" (per quanto tale possa essere un disco la cui matrice resta funerea).

Proseguiamo e arriviamo al vero punto "weird", al momento "diverso" dell'album: dopo un'intro che tutto sommato è a questo punto lecito aspettarsi, "God's Eye" stupisce con un minuto di black metal, più o meno atmosferico, in cui la Brown urla e strilla a più non posso, seguita da un blast-beat (sì, un blast-beat, e sì, è lo stesso disco che partiva poco più di venti minuti fa con echi di funeral doom finlandese ben marcati) e riff da fare invidia a Satyr e Fenriz... o almeno così mi piace pensare, visto che la produzione pecca maggiormente proprio in questo passaggio, com'è naturale aspettarsi, essendo il più concitato dell'intero album. E poi è di nuovo psichedelia, rallentamenti, voci pulite femminili alternate a growl e roche strilla. "Masks", per raggiungere la quadratura del cerchio, torna a rallentare, e arriva, dopo dodici e più minuti di bordoni, effetti e controeffetti, a chiudere il collasso dell'Uroboro con la voce pulita della Brown ad accompagnare l'ultima nota.

Andrew Jude, principale compositore della formazione newyorkese, merita un plauso: il lavoro di scrittura dei brani è ottimo e ben lungi dalle tipiche pesantezze monolitiche che ci si aspetta quando ci si confronta con un disco di quattro tracce da quasi cinquanta minuti. Rivedibile, o più correttamente migliorabile, il lavoro di produzione, ad opera dello stesso Jude e di Nikhil Kamineni (secondo chitarrista), ma la qualità del lotto è indiscutibile ed elevatissima.

Dalla Grande Mela, un mix di sensazioni, di stili e di correnti, tutte facenti capo a un genere definito e intramontabile. DOOOOOOOOOOOOOOOM.

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