Informazioni
Gruppo: Agalloch
Data: 17/05/2013
Luogo: Rock'N'Roll Arena, Romagnano Sesia, Novara
Autore: Istrice
Quasi un lustro è trascorso dalla prima calata in terra italica della band di Portland, un ricordo per certi versi lontano, per altri ancora vivo nella memoria, e nonostante il tempo cambi tante cose, quando ci si dirige a un concerto degli Agalloch (tre su tre per il sottoscritto, per Bosj e per il nostro onnipresente socio Michelino) l'atmosfera ha sempre una sfumatura leggermente diversa. Attesa ai massimi livelli, nonostante la nostra familiarità con la band sia ormai consolidata, dettata dall'annuncio largamente pubblicizzato delle due ore di concerto, un tempo ben più consono alla proposta musicale del gruppo, sempre limitatosi a concerti da poco più di un'ora nelle sue uscite precedenti.
Tra peripezie varie, arriviamo sul luogo del concerto (che doveva essere in origine il defunto Circolo Colony) giusto in tempo per assistere all'entrata in scena degli anglosassoni Fen, ma il tour alla bancarella e soprattutto i saluti e i convenevoli con amici trovati in loco ci distraggono colpevolmente dalla loro esibizione. Va detto che nei brevi momenti d'attenzione poco capivamo di quanto stesse succedendo sul palco, con la chitarra totalmente sotterrata dalla batteria e dal basso. Mi riservo di rivalutarli se ce ne sarà nuovamente l'occasione.
Arriva il momento atteso, cessano le chiacchiere e ci si focalizza sullo spettacolo nascituro. L'applauso del pubblico, non numerosissimo, ma comunque discreto se si considera che è la seconda venuta in due anni, e in quest'occasione hanno fatto pure tappa a Roma, si trasforma in ovazione con l'apparizione sul palco del quartetto. L'apertura è affidata all'inossidabile "Limbs", che lascia il passo a "Ghost Of The Midwinter Fires", unico estratto dal recente "Marrow Of The Spirit", e probabilmente uno dei migliori pezzi dell'album in questione. I suoni sono più che discreti, i Nostri sono in ottima forma e martellano una pregevole "Falling Snow" prima di proporre agli astanti il nuovo EP "Faustian Echoes" nella sua interezza. Nonostante la lunghezza, il brano riesce a essere ragguardevole e apprezzabile anche in sede live, oltre che su disco.
È lo spartiacque di una serata che da questo punto in poi si trasformerà per il sottoscritto e, posso dire per certo, per altri presenti in qualcosa di più di un semplice concerto.
Arriva il momento revival, il momento di "Pale Folklore" e di "The Mantle". Il rapimento musicale è tale da far perdere le nozioni di tempo e consecutio, per cui mi scuso fin da subito se la scaletta non dovesse essere esatta. Ci si ricorda precisamente di cosa s'è sentito, ma l'ordine, la sequenzialità dei fatti si perde nella memoria. Ed è questa la magia della musica, del live, che vi piaccia o no il gruppo in questione, che vi piaccia o no il genere, che siate appassionati di musica classica o di trip-hop, vi auguro di avere le stesse sensazioni qualche volta in vita vostra. Arrivano "Melancholy Spirit" e la clamorosa "Dead Winter Days" dal debutto, a ricordarci che tutti si muore in primavera, la devastante "You Were A Ghost In My Arms", un inedito per quanto riguarda i concerti in Italia, il cui impatto emotivo è totale, e la classica "In The Shadow Of Our Pale Companion", che a ogni riproposizione riesce a essere incisiva quanto la volta precedente. Un grande scenario di morte e desolazione si distende davanti a nostri occhi, lungo il percorso che porta al termine, che si concretizza in "Kneel To The Cross", cover del celebre brano di Sol Invictus.
La pausa è breve, il ritorno sul palco coincide con l'attacco della suite "Our Fortress Is Burning", proposta praticamente nella sua interezza. "Bloodbirds" è notevole, ma dopo la tirata precedente pare quasi un esercizio di defaticamento emozionale. Nel caos di riverberi delle chitarre di "The Grain" il quartetto saluta ed esce dal palco, concludendo quella che senza dubbio resta la migliore esibizione delle tre da noi presenziate.
Scaletta
1. Limbs
2. Ghost Of The Midwinter Fires
3. Falling Snow
4. Faustian Echoes
5. Melancholy Spirit
6. You Were But A Ghost In My Arms
7. Dead Winter Days
8. In The Shadow Of Our Pale Companion
9. Kneel To The Cross
Encore
10. Our Fortress Is Burning - I
11. Our Fortress Is Burning - II - Bloodbirds
12. Our Fortress Is Burning - III - The Grain
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THE FINDER - Serie Tv
Informazioni
Titolo: The Finder
Ideatore: Hart Hanson
Anno: 2012
Stagioni: 1 (13 episodi)
Produzione: Josephson Entertainment / Far Field Productions / 20th Century Fox Television
Provenienza: U.S.A.
Autore: Mourning
Cari lettori, vi chiederete perché vi consiglio di guardare una serie televisiva chiusa alla prima stagione, beh, la mia risposta è semplice. "The Finder", nato come spin off di "Bones", è stata un'avventura divertente fatta di personaggi strampalati: del protagonista Walter Sherman (Geoff Stulz) e del suo stravagante modo di ritrovare ciò che si è perduto; di altri corretti, dal passato tormentato ma infinitamente positivi nella loro massiccia presenza, come Leo Knox (il gigante buono Michael Clarke Duncan); e di episodi andati in crescendo come storia, che ci hanno fatto sperare in un possibile proseguimento. Speranza stroncata dalla prematura scomparsa di Michael, attore amato da moltissimi e da un seguito stranamente altalenante. Il gradevole divertimento offerto e ciò che è divenuto l'ultimo atto visivo del gigante di colore mi fanno pendere a favore di quei 13 episodi, date un'occhiata.
NEL SEGNO DELLA PECORA - Libro
Informazioni
Scrittore: Murakami Haruki
Titolo: Nel Segno Della Pecora (Originale: 羊をめぐる冒険 - Hitsuji Wo Meguru Bōken)
Anno: 1982
Provenienza: Giappone
Editore: Einaudi
Autore: Istrice
Giappone, fine anni '70, la disperata ricerca di una pecora mistica porta l'innominato protagonista, grafico pubblicitario di Tokyo, ad affrontare suo malgrado un viaggio che lo vedrà risalire il paese fino alla regione più settentrionale, l'Hokkaido. Un viaggio folle, durante in quale il lettore verrà a contatto con personaggi assurdi e grotteschi, come la ragazza dalle orecchie bellissime, croce e delizia del protagonista, il Maestro, rappresentazione dell'uomo dietro le quinte della politica, l'Uomo Pecora, figura con pochi eguali, che tornerà anche in altre opere. Un viaggio che si trasforma in viaggio spirituale, e per estensione diventa metafora ed allegoria dell'essenza stessa dell'uomo.
Disillusione, nostalgia e profonda solitudine dell'essere, perplessità politiche e tanta musica permeano il romanzo. Il libro che ha imposto Murakami all'attenzione mondiale, che ne segna con forza la cifra stilistica, un libro surreale, a tratti oscuro, ma capace anche di regalare momenti di grande tenerezza e di toccare le corde più profonde dell'animo.
SKYFALL - Film
Informazioni
Titolo: Skyfall
Regista: Sam Mendes
Anno: 2012
Produzione: EON
Provenienza: Gran Bretagna
Autore: ticino1
Bond, James Bond... quante generazioni sono già state accompagnate da questa frase? La serie di film nata dai romanzi di Ian Fleming ha infatti rotto tutti i record possibili: la più cara, la più longeva (festeggia con "Skyfall" il cinquantesimo), la più redditizia, la più sexy, la pubblicità più lunga del Mondo...
"Skyfall" mostra James Bond, l'agente più conosciuto del Pianeta e il più amato, almeno su pellicola, da un lato scomodo a molti. Sì, ci troviamo davanti a un uomo come te e me, che invecchia. Andiamo per ordine. Il film diretto da Sam Mendes, regista britannico, inizia con un inseguimento mozzafiato e originale dalla triste fine che sfocia in un preludio, accompagnato dal tema principale cantato da Adele, in stile molto classico che non lascia rimpiangere l'epoca di Sir Sean Connery. La storia ricorda forse un poco lo stile usato già dai francesi nei Film Noir e ha un fascino molto retrò. Lo svolgimento è all'inizio un poco diluito e può forse annoiare. Un nuovo Q, giovante e imberbe, fornisce al nostro eroe solo il materiale strettamente necessario, rinunciando alle battaglie con mezzi molto raffinati, ma sa inserirsi con umorismo e bravura al momento cruciale. Sam Mendes calca la mano sulla tensione in tante scene e lascia in sospeso a lungo l'identità del cattivo, offrendo sporadicamente qualche informazione vaga che non lascia sperare nulla di buono. Non perde inoltre l'occasione di attingere a esempi stilistici come "Batman" o altri modernismi con un cattivo che... no, non voglio togliervi l'interesse, svelandovi i tanti colpi di scena mozzafiato che decorano un James Bond targato 2012.
Il nostro agente ritorna virile come non mai e rinuncia a esperimenti filmografici che gli tolgano la linfa vitale come già successo in passato. Questo film è un omaggio ai tempi d'oro della serie e piacerà tanto ai puristi quanto ai più giovani.
KODOMO NO JIKAN - Fumetto
Informazioni
Titolo: Kodomo No Jikan
Scrittore/Illustratore: Kaworu Watashiya
Anno: 2005 - In corso
Provenienza: Giappone
Editore: Futabasha
Autore: Insanity
Il lolicon è continuamente oggetto di discussione, il suo significato è spesso frainteso e ciò porta a controversie e informazioni sbagliatissime.
"Kodomo No Jikan" è a mio parere uno dei migliori esempi relativi a questa tematica: il modo in cui viene trattato l'amore infantile della piccola Rin verso il suo nuovo insegnante Daisuke Aoki — che cerca di conquistare attraverso comportamenti tipici del mondo adulto, ma mantenendo l'innocenza dei suoi otto anni — mostra appunto come l'apparente perversione nasconda in realtà una ricerca di affetto dovuta alla sua difficile situazione familiare. Ad accompagnarla in questo già complicato percorso troviamo le amiche Kuro, segretamente (ma neanche troppo) innamorata di lei, e Mimi, timida e fin troppo sviluppata fisicamente.
Il manga tratta un tema per niente semplice, ma offre una situazione non troppo lontana dalla realtà (seppur portata all'estremo), il falso perbenismo dei bambini visti come angioletti viene evitato a favore di un'innocenza applicata alla scoperta della pubertà e di tutto ciò che gira intorno ad essa, sessualità compresa. Esiste anche una serie animata del lavoro, non perfettamente identica a quella su carta, eppure godibile, divertente e comunque profonda.
CRONICA - Libro
Informazioni
Scrittore: Salimbene de Adam
Titolo: Cronica
Anno: Ignota (unico manoscritto superstite: 1857)
Provenienza: Italia
Editore: Vari (Laterza, Garzanti, Diabasis, Xenia, etc)
Autore: 7.5-M
Una voce da lontano, dal Medioevo. Una voce che aggiorna tutte le nostre immagini su un periodo storico: noi lo intendiamo oscuro, decadente, insicuro. Molto spesso ci dimentichiamo cosa è nato in quell'epoca: Dante, Giotto da Bondone, e molti altri artisti (artigiani si chiamavano allora) che non hanno lasciato i loro nomi, ma i loro colori e le loro chiese, i loro altorilievi e monasteri, et cetera.
Salimbene de Adam, parmense, ci informa sui fatti e sui personaggi (dagli alti santi, papi, imperatori ai poveracci, al giullare, alla sua famiglia e alla sua biografia vocativa) di un'epoca ricchissima, dal 1198 al 1286, per cultura, potenza espressiva, umanità. La lingua latina di Salimbene è raffinata da una eclettica e colta trasfusione di sangue volgare, ed i toni della narrazione passano dalla fortissima orazione biblica (molto spesso a giudizio morale di eventi accaduti) agli scherzi giocati dai predicatori di strade alle loro folle in ascolto col naso all'insù, a bocca aperta.
Un affresco, un mosaico, che mostra tutto lo splendore e la miseria d'un'età, per ricordarci che ogni età ha il proprio splendore e la propria miseria. E in ogni epoca bisogna saper riconoscere i buoni narratori che sanno raccontare.
ALIENS VERSUS PREDATOR - Videogame
Informazioni
Titolo: Aliens Versus Predator
Sviluppatore: Rebellion Developments
Distributore: Sierra
Anno: 1999
Piattaforme: PC / Mac
Autore: M1
Alieni giganti che si muovono rapidissimi e invisibili, nutrendosi delle proprie vittime. Predatori tecnologici in gita a caccia di "selvaggina". Sì certo, ma ai poveri e sfigatissimi marine spaziali chi ci pensa? Troppo comodo vedere al buio o ripristinare la propria vita tramite iniezioni di energia, provate invece ad aggirarvi solitari, al buio, armati di fucili dalla dubbia efficacia e con munizioni scarse, dovendovi confrontare con ogni genere di mostro e sfiga immaginabile.
Ora fatelo al buio della vostra stanzetta, di notte, col volume di gioco al massimo. E preparatevi a infarti multipli durante le sessioni di gioco di "Aliens Versus Predator", fortunato e sottovalutato FPS (sparatutto in prima persona) che sul finire del XX secolo ha portato sui computer di tutto il mondo le atmosfere claustrofobiche e spaziali del capolavoro "Alien" e i temibili cacciatori del film "Predator". Forse non tutti sanno che l'origine di questa "fusione" risale al periodo fine 1989 - fine 1990 a opera di Randy Stradley, che scrisse una storia originale per un fumetto.
Tre diverse razze per tre modi completamente diversi di affrontare le proprie rispettive campagne: offre soddisfazione seguire il proprio xenomorfo che si sviluppa da piccola larva a gigante affamato, mentre ogni istante vissuto nei panni del marine garantisce adrenalina a bizzeffe. Dal canto loro i predator sono i più dotati a livello di armamentario ma anche qui servono pratica e concentrazione per sfruttare al meglio il proprio arsenale.
Tre giochi in uno per uno sparatutto davvero piacevole, vario ed emozionante.
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Gruppo: Overtorture
Titolo: At The End The Dead Await
Anno: 2013
Provenienza: Svezia
Etichetta: Apostasy Records
Contatti: facebook.com/Overtorture
Autore: Mourning
Tracklist
1. Black Shrouds Of Dementia
2. Murder For The Masses
3. Slaves To The Atom
4. The Outer Limits
5. Targets
6. The Strain
7. The Coming Doom
8. Towards The Within
9. Suffer As One
10. At The End The Dead Await
DURATA: 40:48
Suonare svedese per vocazione o per moda? Leggendo un nome sconosciuto come Overtorture il primo pensiero potrebbe ricondurre alla seconda opzione. L'ennesima band che si getta a capofitto nel revival provando a dire la sua, ma (e c'è il ma) i musicisti in formazione sono tutti personaggi che vivono nel panorama scandinavo death metal ormai da una vita e alcuni hanno militato, o lo fanno tuttora, in realtà quali Grave, Insision, Demonical e Coldworker.
Si parte quindi dal presupposto che le radici siano radicate, estremamente resistenti e sin dalle battute d'apertura del debutto "At The End The Dead Await" è chiaramente udibile che sia la scena di Stoccolma a farla da padrone con puntate lievi, tuttavia indovinate, di atmosfere e armonizzazioni in uso al tempo nella zona di Gothenburg. La proposta del quintetto è solida come il granito, il più delle volte basata su riff semplici, però forniti di una buona dose d'efficacia, snocciolati da Magnus Martinsson (abile anche nell'inserire all'interno dei brani dei brevi e azzeccati assoli che stemperano lo svolgimento, rendendolo meno granitico) e Andreas Hemmander. Il lavoro svolto dalle due asce viene supportato con grinta dalla prestazione rocciosa e colma di groove dall'accoppiata ritmica che vede Joakim Antman al basso e Fredrik Widigs alla batteria, oltre che dall'intransigente e profonda prova dietro al microfono di Joel Fornbrant, tassello che si pone a mo' di ciliegina sulla torta.
Intransigente è proprio la parola adeguata a identificare l'intero operato della band, gli Overtorture infatti non si concedono un attimo di fuga dagli schemi rodatissimi del passato, presentando comunque una scaletta degna di inaugurare delle serie d'ascolto ripetute grazie a un quintetto di episodi composto da "Black Shroud Of Dementia", "Slaves To The Atom", "The Outer Limits", "The Strain" e "Suffer As One" che mantiene alto il livello del godimento. "At The End The Dead Await" è il classico disco per onnivori del genere, una di quelle uscite fatte apposta per chi è cresciuto con il pallino della Svezia death e ai quali non potrà che risultare piacevole all'orecchio.
È inutile attendersi il "capolavoro" epocale nel 2013, è doveroso invece pretendere quantomeno della buona musica e in questo gli Overtorture ci danno una mano. Buona la prima!
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Gruppo: Eisenherz
Titolo: Fluch Der Zeit
Anno: 2013
Provenienza: Germania
Etichetta: Dust On The Tracks
Contatti: facebook.com/EISENHERZofficial
Autore: Mourning
Tracklist
1. Intro
2. Die Nacht
3. Du Liebst Mich Nicht
4. Fluch Der Zeit
5. Racheengel
6. Licht Der Welt
7. Du Bist So Kalt
8. Vampir
9. Schlampenball
10. Scheintot
11. Manipulator
12. Schicksal
13. Die Seele Brennt
DURATA: 51:23
È la prima volta che incontro gli Eisenherz, la formazione tedesca non era mai finita sulla mia strada, perciò non sono a conoscenza di come suoni il disco di debutto omonimo pubblicato sette anni or sono, è quindi sul solo "Fluch Der Zeit" che provo a valutarne i valori. La proposta è particolarmente fruibile, un connubio di gothic rock e metal dai tratti sinfonici al quale si potrebbero associare i nomi di Crematory, Nachtblut e per certi aspetti anche Rammstein, Megaherz e alla lontana i Moonspell e gli Oomph!.
È uno scenario derivativo e che non aggiunge nulla di nuovo a un filone musicale solcato in più direzioni da tempo immemore, ma che comunque si difende sfruttando la combinazione di sezioni aggressive caratterizzate perlopiù dalle linee vocali maschili taglienti e ruvide interpretata da Heinz Zürl e momenti ad ampio respiro nei quali il lato melancolico e suadente prende forma grazie all'entrata in scena di quelle femminili a cura di Yvonne Groh.
L'album — seppur trascinato in varie occasioni da una composizione che si rifà in tutto e per tutto a cliché noti e che non li risparmia nemmeno all'ambito dei testi (l'esempio evidente è un pezzo orecchiabile e facilmente assimilabile come "Vampir") — tira fuori delle canzoni dalla buona resa: vi sono infatti la corpulenta traccia d'apertura "Die Nacht", "Du Liebst Mich Nicht" nella quale sono i sinfonismi a dominare la scena, la stravagante "Schlampenball" (a metà fra uno strano sogno e una rocciosa prestazione "heavy"), "Racheengel" e "Scheintot" maggiormente severe e scure nei toni e si giunge infine con una certa soddisfazione di fondo alla nuova veste di "Die Seele Brennt", unico pezzo datato in quanto contenuto originariamente in "Eisenherz".
Non si riscontrano grandi difficoltà ad ascoltare il lavoro degli Eisenherz, anzi nel complesso risulta essere alquanto convincente e solido, manca solo quel "quid" che permetta loro di distaccarsi dal carrozzone dei nomi citati nelle righe precedenti e che troppe volte diviene una presenza ingombrante all'interno delle tracce.
Se siete degli sfegatati fruitori del genere, un ascolto a questo "Fluch Der Zeit" dovreste decisamente concederlo, possiede più di un perché che me lo fa ritenere adatto a intrattenervi.
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Gruppo: Ocean Chief
Titolo: Sten
Anno: 2013
Provenienza: Svezia
Etichetta: I Hate Records
Contatti: facebook.com/pages/OCEAN-CHIEF/31120371675
Autore: Mourning
Tracklist
1. Den Sanna Styrkan
2. Slipsten
3. Stenhög
4. Oden
DURATA: 01:11:47
Gli Ocean Chief mi fanno letteralmente godere, perciò non comprendo il motivo per cui questa compagine svedese sia così poco conosciuta e addirittura sottovalutata. Non si parla di musicisti alla prima esperienza, qui fra membri ed ex di realtà quali Regurgitate, Dawn, Maim, Vanhelgd e Catapult The Smoke (solo per citarne alcune) si è sicuri di essere capitati in buone mani e il quarto disco "Sten" (pietra), rilasciato tramite l'etichetta connazionale I Hate Records, è un'ulteriore riprova che il quartetto di Mjölby è di quelli da supportare e comprare.
Sono estremamente positivo? Vi sembro un fan esagitato? Può darsi, però seguendo con discreta costanza la scena doom ho potuto constatare che questi signori nei loro dieci anni e più di carriera non si sono mai adagiati. Partendo da influenze di stampo classico quali Black Sabbath, Sleep ed Electric Wizard, hanno trovato il modo di far convivere la base del mondo stoner/doom con le evoluzioni odierne che si sono distinte per personalità e una conformazione dai tratti epici e fortemente inclini alla raffigurazione delle proprie sensazioni, dando ai lavori una forma completa a trecentosessanta gradi. Del resto gruppi del calibro di High On Fire, Ahab, Yob e Kongh si sono guadagnati i favori di molti per le indubbie qualità delle uscite a loro nome, c'è poco da discutere su questo. Questi scandinavi possiedono un potenziale e una resa tale da metterli sullo stesso piano delle formazioni tirate in ballo? Assolutamente sì.
I settanta e rotti minuti racchiusi nei quattro estesi capitoli dell'album inglobano una mole musicale mastodontica, i riff sono grevi, pesanti e scavano in profondità, le melodie intagliano all'interno dei brani percorsi malinconici dal retrogusto amaro, emanando una sensazione di antico che viene esaltata dalla diligente combinazione di vere e proprie evocazioni in note ed espansioni atmosferiche sconfinate: è un adorabile mattone del "destino". Tutto questo gigantesco ammasso assume una posizione ferrea, a tratti quasi inamovibile, e il suo essere avvolto da una coltre fuzz, rafforzando la base con movimenti ciclici in alcuni casi quasi estenuanti per il modo in cui si accaniscono sull'ascoltatore, fa di "Sten" una creatura maggiormente ancorata all'incarnazione doom rispetto a quelle più varie, sia per gli elementi di stampo stoner accentuati che per le scorribande in territori esterni a tale panorama, insite nelle proposte dei colleghi menzionati poco più su.
Il bello degli Ocean Chief è questo, non esiste una via di mezzo, sono estremi e privi di situazioni che si possano definire accondiscendenti nei confronti di coloro i quali si cimentano nell'ascolto. Del resto anche la prestazione vocale di Tobias Larsson — per quanto fiera — si mantiene costantemente severa, rigida e impositoria.
Sì, lo so, le canzoni a qualcuno potranno sembrare esageratamente allungate, forse anche diluite, reputo comunque adeguato lo sviluppo così ossessivo e prolungato, modellato appositamente per un concept che ancora una volta ci racconta dei miti norreni. È volutamente pachidermico, come fatto apposta per allontanare chi per scarso interesse o mancanza di trasporto emotivo non riesce a trovare una connessione con il disegno narrativo targato Ocean Chief.
"Sten" è stupendo, tuttavia non è un album consigliabile a chiunque, è già una discreta "gatta da pelare" per gli appassionati del genere che se la dovranno vedere davvero con una "pietra" e fondamentalmente necessita di pazienza e del desiderio di cadere in balia del sound degli svedesi per goderne appieno. Senza questi due elementi sarà difficile reggerne le sorti, quindi a voi adesso decidere se tentare o meno d'intraprendere questo duro, ma gratificante viaggio in loro compagnia.
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Gruppo: Vivid Remorse
Titolo: Down To The Wire
Anno: 2012
Provenienza: Spagna
Etichetta: Art Gates Records
Contatti: facebook.com/pages/VIVID-REMORSE/135806803107251
Autore: Mourning
Tracklist
1. Biopiracy (The Seed Of My Land)
2. Imaginary Actress
3. Theory Of Fear
4. Overdosed
5. Involution
6. Nobody Answers
7. Seize The Death
8. Seven Days Of Fire
9. L'Angoixa De L'Existència
10. Stop on Time
11. The Never Falling Cries
DURATA: 36:01
Il 2010 fra le tante buone produzioni che ci ha donato portò a galla anche il debutto dei Vivid Remorse "The Seed Of Malaise", per il quale mi attendevo un seguito che migliorasse la già piacevole capacità di vagare in più territori thrash. La proposta dei catalani era infatti alquanto varia ed è rimasta tale, la conferma è arrivata con il secondo album "Down To The Wire".
Il quartetto di Barcellona ha mantenuto le qualità positive mostrate in passato: la compattezza, le dinamiche in costante evoluzione e il sapersi reinventare in corsa sono — insieme all'ottima prestazione di Joel Repiso "Ocell" dietro al microfono — le armi che si schiantano pesantemente sul piatto della bilancia contrassegnato dal segno "più". A esse si sono però aggiunte una maggiore consapevolezza dei mezzi in proprio possesso e un'attenzione accurata nei frangenti in cui il sound tende ad estremizzarsi o contrariamente ad allentare la presa, tant'è che se nella prova d'apertura dei giochi ci si poteva lamentare di alcuni frangenti non proprio pienamente digeribili in quanto poco amalgamati con il resto, adesso scorrendo la scaletta, pur non trovandoci dinanzi a un capolavoro, abbiamo un disco che non soffre di pause emotive, che martella e guadagna punti di traccia in traccia, offrendo all'orecchio una gamma di influenze veramente ampia grazie alla commistione di fasi hardcore, heavy e al limite col death, che partecipano all'esposizione sonora dei vari episodi: Slayer, Death Angel, Sacred Reich, Sepultura, Pantera, D.R.I., Suicidal Tendencies e chi più ne ha ne metta.
I Vivid Remorse si dilettano ad attaccare con continuità, cambiando spesso e volentieri la direzione dalla quale farlo. Talvolta esagerano, rendendo talmente cupa e pressante l'atmosfera da finire per oltrepassare volontariamente le barriere stilistiche del genere, come avviene in "Involution" (dove appaiono il cantato in "pig-squeal" e sezioni di batteria in blastato), mentre in altre circostanze viene fuori una componente speed marcata, è il caso di "Seven Days Of Fire", e quella sensazione di classico che volenti o nolenti si porta dietro. Non sarebbe potuto poi mancare in scaletta il pezzo in lingua madre, nel primo disco avevamo "Sammy", qui è il più che dignitoso "L'Angoixa De L'Existència". Infine tra scatti in velocità e durezza offerti dalla canzone d'apertura "Biopiracy (The Seed Of My Land)", "Theory Of Fear" e "Nobody Answers", l'essenza del loro modo di rappresentare il crossover concentrata in "Overdosed" e il finale acquietato di "The Never Falling Cries", che ricorda sia i 'Tallica che Rob Cavestany & soci, si conclude il passaggio nello stereo di questo nuovo capitolo.
I Vivid Remorse hanno fatto un passo in avanti, la produzione è un altro fattore che si pone a favore della riuscita del disco, il suono in generale è alquanto ben definito, ma privo delle eccessive rifiniture e levigature in voga odiernamente, ciò garantisce alle tracce di poter mantenere quell'alone grezzo che ne sostiene l'istintività e quell'impatto travolgente delle quali sono effettivamente fornite.
Lo so, tenere i piedi in più scarpe non è una prerogativa che affascina gli amanti e soprattutto i veri e propri cultori della scena thrash metal, è anche vero però che di band cloni e dalla creatività ridotta al lumicino nel tentativo irritante di seguire pedissequemente le orme di chi c'è già stato ce ne sono davvero a bizzeffe. In fin dei conti "Down To The Wire" non contiene nessuna pacchianata, concessione "pop" o esplorazione assurdamente distante dalla concezione del sound che ci piace, v'invito quindi ad ascoltarlo. Se poi aveste avuto modo di apprezzare "The Seed Of Malaise", l'acquisto sarebbe un pensiero da prendere in seria considerazione.
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Gruppo: Infinite Translation
Titolo: Masked Reality
Anno: 2012
Provenienza: Francia
Etichetta: Emanes Metal Records
Contatti: facebook.com/pages/Infinite-Translation/187598204626140
Autore: Mourning
Tracklist
1. Malicious Mental Oppression
2. Destined To Death
3. Join The Masses
4. Killing Sollution
5. I'll Love You Dead
6. Lead To Madness
7. Life Of Submission
8. The Boat Can Leave Now
9. Masked Reality
DURATA: 39:05
Da quando è attiva Aristocrazia Webzine credo d'aver ripetuto più volte che non sono il tipo che giudica un disco dalla sua copertina. Se l'avessi fatto, in molti casi mi sarei perso degli ottimi lavori, basandomi sul più stupido dei pregiudizi. Di certo avrei accantonato anche il secondo lavoro dei francesi Infinite Translation, intitolato "Masked Reality", e poi me ne sarei pentito.
La copertina dell'album, con quella specie di "Trapattoni" raggrinzito e mostruoso alla guida di un gregge dai volti umani, è decisamente brutta, magari significativa e adatta a rappresentare il titolo dato all'opera, eppure veramente brutta. Per fortuna, andando oltre tale dettaglio e inserendo il cd nel lettore, sono stato letteralmente scagliato negli anni Ottanta, quelli che hanno reso il thrash ciò che è. La formazione transalpina è una bomba e, per quanto il songwriting sia derivativo sia della scena statunitense (Nuclear Assault, Exodus e Slayer) che di quella canadese (Sacrifice e Razor), non vi sono problemi di sorta nel farsi travolgere da una serie di brani a dir poco esplosivi come "Destined To Death", "Killing Solution" e "Masked Reality"; anzi in tutta onestà trovo l'intera scaletta particolarmente coinvolgente, grazie a una prova corale riuscita.
Se è vero che in questo caso il complesso fa la vera forza, i singoli sono però capaci di fornire quel "quid" in più assente in molte prove uscite in questi anni all'interno del filone revival. Le note positive in aggiunta risiedono infatti nella brillante esecuzione delle linee vocali da parte del cantante Max Maniac, che si mette in evidenza anche in qualità d'autore delle adrenaliniche digressioni solistiche e al quale è impossibile non affiancare il nome di John Connelly dei Nuclear Assault (in più di un'occasione potrete notare una certa somiglianza nell'approccio stilistico che caratterizza i due), e nella prestazione quadrata e violentemente ricca di "tupa-tupa" (che non guastano mai) del batterista Fish Killer, che pesta come si deve pestare.
"Masked Reality" è thrash sino al midollo, fanculo ai fronzoli, alle produzioni stracurate e a quelle prove che sembrano sfornate da burattini con la scopa su per il retto. Il quartetto pare urlare continuamente "thrash or die!": è ciò che volete? Se siete realmente appassionati di questo modo di fare musica, non potrete farvi mancare gli Infinite Translation in collezione.
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Gruppo: Execration
Titolo: The Acceptance Of Zero Existence
Anno: 2012
Provenienza: U.S.A.
Etichetta: Comatose Music
Contatti: facebook.com/execrationbrutality
Autore: Mourning
Tracklist
1. Through The Portal
2. Awake The Darkened
3. The Acceptance Of Zero Existence
4. Infernal Rites Of Exsanguination
5. Serpentine Changeling
6. The Stars Will Make Known My Rage
7. Further Through The Portal
8. Queen Amongst The Wolves
9. The Great Fall
10. Falling Through The Portal
11. The First Death
DURATA: 37:39
Gli statunitensi Execration non sono dei fuoriclasse, non sono dei capofila, non sono tutto ciò che volete, ma Cristo Santo quanto martellano! La Comatose Music dopo aver prodotto nel 2008 "A Feast For The Wretched", debutto di questi musicisti provenienti da Colorado Springs, li rigetta nella mischia con il secondo "The Acceptance Of Zero Existence", un disco che per come suona e per quello che suona potrebbe avere anche una quindicina d'anni alle spalle invece di essere targato 2012.
La mistura ossessiva di brutalità, collera e sezioni atmosferiche morbose è facilmente ricollegabile all'influenza congiunta di grandi nomi della scena estrema, dai più classici Morbid Angel, Immolation, Deicide e Cryptopsy sino alla bestiali e più recenti prestazioni di band quali Inherit Disease e Odious Mortem. Ciò che frega in parte il quintetto è la mancanza sia della classe che di un livello di composizione dinamico ed espositivo che permettano loro di competere con le realtà tirate in ballo. A tutto questo purtroppo si aggiunge una produzione che sembra fatta apposta per farti incazzare come una iena, perchè il suono è reso troppo, troppo piatto: immaginate d'essere inseguiti da una folla adirata e voi che al posto di correre come dei dannati camminate, perché tanto chi sta dietro va al rallentatore. L'impatto dei pezzi alle volte risulta essere sterile, al posto di menar le mani tirando schiaffoni pare colpiscano utilizzando dei buffetti ed è difficile non notarlo.
Con quanto affermato poco più su non voglio assolutamente dire che ci troviamo dinanzi a un disco scadente, qui non mancano la pesantezza e il gravare sull'ascoltatore, infliggendo mazzate brutal vorticose e scatenate, inoltre vengono messe in mostra delle qualità di base veramente valide. Il trio di brani formato da "Infernal Rites Of Exsanguination, "Serpentine Changeling" e "The Stars Will Make Known My Rage" è quanto di più godereccio ci si possa attendere da un'uscita del genere, mentre con "The Great Fall" finalmente abbiamo anche la possibilità di constatare che l'assetto ritmico fornito al pezzo dal batterista Kevin Elrod e dal bassista Shawn Shannon sfrutta dei cambi di tempo da smontare il cervello. Solo che poi ripensi all'inutilità degli strumentali "Through The Portal", "Further Among The Portal" e "Falling Through The Portal", decisamente non necessari, e a qualche calo sparso qua e là e ti rendi conto che con due chitarristi furiosi e preparati quali sono Jerred Houseman e Brian Palmer, avendo a disposizione pure un cantante granitico e greve come Wyatt Houseman, avrebbero potuto ottenere sicuramente di più.
È cosa certa che l'operato dietro il mixer debba essere rivisto, oggigiorno è un peccato risultare limitati a causa di quest'aspetto, così come le pause prese in alcune circostanze devono essere eliminate, ad esempio la parte iniziale di "The First Dead" non convince proprio.
In definitiva? "The Acceptance Of Zero Existence" è consigliato agli sfegatati fruitori di questo mondo fatto di randellate e cattiveria gratuita. Gli Execration meritano la nostra fiducia, la formazione ha le carte in regola per svoltare e con il terzo album potrebbe tirar fuori un piccolo gioiellino. Non ci resta che attendere e sperare sia così, per ora premo di nuovo "play" e il vicinato — come al solito — ringrazia.
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Gruppo: Dimicandum
Titolo: The Legacy Of Gaia
Anno: 2012
Provenienza: Ucraina
Etichetta: Metal Scrap Records/Total Metal Records
Contatti: facebook.com/dimicandum.official
Autore: Mourning
Tracklist
1. The Legacy Of Gaia
2. Give Me A Name
3. The Walls Of Jericho
4. At the Gates Of Ishtar
5. Indigo Child
6. Sumerian's Warning
7. Bring Me Down To My Atlantis
8. When The Sun Burns Out
DURATA: 37:32
Non vi piace il metal moderno? Lasciate subito questo testo. Non gradite i "mischioni" sonori? Idem come prima.
I Dimicandum, giovane formazione ucraina proveniente dalla capitale Kiev, hanno deciso di puntare su ciò che è attuale per dar forma al proprio debutto "The Legacy Of Gaia". Il disco è confezionato avvalendosi di una congiunzione composta da metal atmosferico a tinte "gotiche" nella quale appaiono intrusioni del growl a rappresentare l'unico elemento di reale contrasto a un'incondizionata vocazione melodica e alla consistente e volutamente densa malinconia che incrosta i pezzi. Il nome a riferimento che più volte mi è balzato in testa è quello dei tedeschi Dark At Dawn, band alquanto abile nel far convivere l'aspetto armonioso e seducente delle composizioni con quel tipo di retaggio ambientale, anche se le differenze tra i due gruppi sono distinguibilissime e importanti. Il quintetto ucraino è infatti propenso ad avvalersi di soluzioni sin troppo "pulitine", a virare in ambito metal-core melodico e a usufruire di coralità di stampo nu metal, come avviene in "Indigo Child".
Pur trovandoci di fronte a una prima prova, la scaletta è ben assortita e condensata in modo da non divenire dispersiva, mentre il rapporto fra la varietà strumentale esposta e la durata dei brani fa sì che questi ultimi — per quanto non riescano a sorprendere per chissà quale arguzia compositiva — risultino comunque particolarmente fruibili. Pronti a testimoniare quanto appena detto ci sono pezzi quali "The Legacy Of Gaia" e "The Walls Of Jericho", i quali tendenzialmente dovrebbero (e sottolineo dovrebbero) rapportarsi in maniera più evidente con il filone melo-death, "Sumerian's Wing" dai tratti epici spiccati e "Bring Me Down To My Atlantis", il più pesante e prestante del lotto.
Singolarmente c'è da tener conto del contributo offerto dal cantante Roman Semenchuk, che ricopre anche il ruolo di compositore unico della musica e dei testi, più che discreto nell'impattare sulle canzoni, sia per quanto concerne l'aspetto emotivo che quello interpretativo. Stesso discorso per il chitarrista Oleg Aditon, il quale con Roman forma l'asse ritmico e si distingue per le buone divagazioni solistiche, e per la tastierista Anastasia Loginova, efficace nel supportare l'operato delle sei corde, aumentando il tasso atmosferico in possesso del complesso strumentale.
I Dimicandum dimostrano di avere delle basi solide sulle quali in futuro si potrà lavorare per fornire un minimo di personalità e un'impronta più decisa che renda le tracce maggiormente memorabili; per ora il livello è abbastanza appiattito, superiore sì alla sufficienza, ma non adeguatamente attrezzato per puntare a una valutazione più importante. Questi ragazzi sono come una promessa che attende d'esser mantenuta e auguro loro di riuscirci.
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Gruppo: Temple Of Void
Titolo: Demo MMXIII
Anno: 2013
Provenienza: Detroit, U.S.A.
Etichetta: autoprodotto
Contatti: templeofvoid.bandcamp.com
Autore: ticino1
Tracklist
1. Beyond The Ultimate
2. Exanimate Gaze
3. Bargain In Death
DURATA: 22:15
Chi ha detto che il Death Metal debba essere veloce? Questa domanda è stata posta al più tardi nel 1991, all'uscita di "The Rack" degli olandesi... Ok, tanto sapete di chi parlo. Mai come prima, forse, era tanto evidente una differenziazione nel genere, differenziazione che giova ancora oggi a molti ascoltatori e fan.
Dalla Motor City ci giunge il primo demo dei Temple Of Void, quintetto che si dedica a un "Metallo della Morte" molto pesante e roccioso. Tre piste Death imballate in un concetto Doom con tocchi Post: questa potrebbe essere la sintesi del lavoretto presentato qui. Che cosa si cela dietro a tale definizione cruda e fredda?
Le tracce dei cinque ragazzi di Detroit sono formate da scale ruvide, lente e dense come la resina, colonna sonora ideale per temi vocali morbosi. L'ascoltatore colto e attento scoprirà con il passare dei minuti parecchie influenze classiche che — grazie ai tocchi moderni citati sopra — s'integrano perfettamente senza dare all'ascoltatore il famoso effetto di déjà-vu. Adatto a definire ciò che intendo dire è l'inizio del maestoso secondo pezzo, "Examinate Gaze", che oltretutto ha un grande potenziale per divenire un rullo compressore ai concerti con il suo ritmo trascinante e la sua intensità sonora.
Il bello di questo lavoretto è che le canzoni si combinano magnificamente in un insieme concreto e coerente, fatto raro oggi (secondo me). "Bargain In Death" non è solo la traccia più lunga, ma — in un certo senso — il culmine della registrazione; questa è forse la fase più legata al classicismo Death e che mostra tocchi della scuola Doom britannica come segnali indicanti la provenienza del gruppo. Potrei parlare qui di Blues Rock oppure Stoner, ma preferisco ricordare i mitici MC5 di Detroit.
Insomma, questo demo promette davvero bene; nulla è nuovo o particolarmente originale. Questa incisione è davvero piacevole, garantisce intrattenimento e, per quanto io mi sforzi, non riesce ad annoiarmi. Vi piace il Death lento? Adorate il Doom? Andate e udite!
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Gruppo: Khephra
Titolo: L'Arcano Del Mondo
Anno: 2013
Provenienza: Varese, Lombardia, Italia
Etichetta: Mal Eventum
Contatti: facebook.com/pages/Khephra/113616218693278
Autore: Bosj
Tracklist
1. La Danza Delle Streghe
2. Sotto Il Noce
3. Malleus Haereticorum
4. Eko Eko (Pt. I)
5. Eko Eko (Pt. II)
6. Teresa 1400
7. Michaela Angiolina Damasius
8. La Notte Delle Streghe
9. Triora
10. Outro
DURATA: 39:48
Dopo il ritorno alla vita con "Resurrection", datato 2010 e segnante la ripresa dei lavori fermi fin dagli anni '90, i Khephra, dall'hinterland varesotto, non danno la minima impressione di volersi fermare. "L'Arcano Del Mondo" continua lungo la linea dettata dal fermo, fermissimo credo dei quattro musicisti: black metal cattivo, veloce e marcio. In sostanza, la perfetta sintesi dell'underground, di cui la formazione lacustre è ferma sostenitrice, e niente più.
Il materiale di cui questo album si compone, infatti, suona quasi fuori dal tempo: è uscito da poche settimane, sì, ma potrebbe benissimo recare in calce la data 1994, tanto la formula è canonica e consolidata. E se per voi che leggete questo è un aspetto negativo, allora potete anche dirigere la vostra attenzione altrove, perché conoscendo l'atteggiamento (nel senso vero di "attitude", di "stato mentale") della band, è esattamente questo il risultato cui si voleva pervenire.
C'è tuttavia una nota dolente: il volume delle chitarre (addirittura due) è decisamente troppo basso rispetto a tutto il resto. Il risultato purtroppo smorza, almeno in parte, la carica di malvagità degli intrecci intessuti dai Khephra, lasciando in perenne primo piano la voce di Lord Of Pestilence e la batteria di Draughar, salvo forse nell'unico assolo del disco (ebbene sì, c'è un assolo, anche abbastanza lungo e di pregevole fattura), la conclusione di "Teresa 1400". Premesso questo, tutto il resto è ampiamente godibile e apprezzabile: dai testi per gran parte in lingua madre, ma con alcuni episodi in inglese ("Teresa 1400", "Eko Eko Pt. II", "Michaela..."), al momento di "sperimentazione" con doppie voci e chitarra acustica ("Eko Eko Pt. I").
Nonostante qualche ombra qua e là, come alcuni riff un po' troppo simili tra loro (in questo senso gli attacchi di "Eko Eko Pt. II" e "La Notte Delle Streghe" sono parenti stretti) e un'espressività testuale non sempre efficacissima (le liriche del brano d'apertura, per quanto volutamente litaniache e cantilenanti, sono un po' poco incisive), i Khephra confezionano dunque un disco più che buono, valido sotto più punti di vista, espressamente debitore del black metal più puro e "classico", ma non per questo carente di personalità, anzi pregevole testimonianza delle capacità di una band che si fa beffe del passare degli anni e conserva inalterato l'ardore degli inizi, fedele alla causa della Nera Fiamma.
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Gruppo: Godsplague
Titolo: Revival
Anno: 2013
Provenienza: Finlandia
Etichetta: Stay Heavy Records
Contatti: facebook.com/pages/Godsplague/27005316172
Autore: Mourning
Tracklist
1. Spit It Out
2. Gears Of Destruction
3. I Like It Like That
4. Live Like It's Your Last Day
5. Misery
6. Like Heaven & Hell
7. Honorrhoea
8. One Black Soul
9. I Am Trouble
10. Born, Erased, Revived
11. The Vast Sound Of Tuning Out
DURATA: 43:12
Il nome Godsplague a tanti dirà poco o nulla, ma devo essere sincero: anch'io ho avuto modo di conoscerli e apprezzarli in netto ritardo, soltanto dopo averne ascoltato il terzo lavoro "H8". Dall'uscita di quell'album sono trascorsi sei anni, nel 2009 poi è entrato a far parte della formazione il bassista Reeo Tiiainen, prendendo il posto lasciato dall'ex Arska Hietala, e successivamente è rientrato nei ranghi il batterista originale Sami O.J. Ojala. Questi musicisti insieme ai i due membri storici del gruppo, Euge Valovirta alla chitarra e Nico Hartonen dietro al microfono, hanno realizzato il quarto capitolo discografico intitolato "Revival".
I finnici sanno il fatto loro, la proposta ibrida è ricca di sensazioni sia metal che rock ed è divenuta col tempo maggiormente fruibile e orecchiabile, mantenendo però una qualità compositiva più che soddisfacente. Il disco infatti — pur presentando in più occasioni delle situazioni marcatamente derivative in brani come i "I Like It Like That" e la successiva "Misery", entrambi apprezzabilissimi viste le tracce del DNA dei Faith No More (nella prima) e dei connazionali Sentenced (nella seconda) — si difende benissimo, alternando grinta e melodia, momenti di puro e coinvolgente divertimento ad altri più rocciosi o ragionati. La scaletta giunge al termine senza trascinarsi dietro problemi, offrendo movenze alla Black Label Society evidenti in "Gears Of Destruction" ed escursioni gradite in territori groove dal rimando panteriano sparse qua e là, regalandoci inoltre il rockeggiare scatenato di "One Black Soul" e l'elementare eleganza inattesa del duetto piano-voce racchiuso in "The Vast Sound Of Tuning Out".
"Revival" insomma gira bene, le ruote degli ingranaggi sono oliate a dovere e strumentalmente ho trovato i finlandesi in gran forma, con un piacevolissimo lavoro di Euge alla sei corde anche in fase solistica e Nico che ha dissolto definitivamente i miei dubbi circa la sua capacità di fornire alle linee quella varietà e quelle sfaccettature tali da garantire all'impostazione una resa maggiormente accattivante rispetto al passato.
I Godsplague si confermano una band dotata di buone qualità e pur non inventando nulla si propongono di entrare tra i vostri ascolti giornalieri, nella speranza di farvi compagnia in maniera gradita. Se ciò che andate cercando è una bella scossa, tenete in considerazione l'idea di far girare nel lettore "Revival": non ve ne pentirete.
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Gruppo: ZiZ
Titolo: Ever
Anno: 2013
Provenienza: Italia
Etichetta: Toilet Smokers Club
Contatti: facebook.com/zizedelic - zizever[at]gmail.com
Autore: Dope Fiend
Tracklist
1. ZiZ
2. Jericho Lie
3. And To Protect
4. Tardigrad
5. Space Is The Place
DURATA: 35:10
Lo ZiZ non è nient'altro che se stesso, infinitamente; ovvero, lo ZiZ è archetipo dell'infinito. Ciò significa che in lui converge una duplice simbolicità: lo ZiZ è simbolo del cosmo, ma è anche simbolo dell'immortalità.
Lo so, iniziare una recensione con una citazione è forse un artifizio di dubbia valenza, ma so che mi perdonerete: le parole che avete appena letto sono estrapolate dal foglietto di presentazione pervenutomi con "Ever", il primo EP degli ZiZ, e ritengo siano le più valide per portare alla vostra conoscenza l'operato di questo quartetto di Voghera. Lo ZiZ identificherebbe un uccello presente in svariate mitologie e la sua forma più conosciuta è quasi sicuramente quella della leggendaria Fenice: la più nuova e ultima incarnazione di tale creatura si manifesta tramite quattro ragazzi provenienti da altri progetti nostrani (Malasangre, Caput LVIIIm, Mocker Monkeys e altri) e la sua opera prima è "Ever".
L'apertura è affidata a "ZiZ", traccia che lascia fluire un senso di psichedelia dai contorni onirici che, tramite una cullante ripetitività ipnotica e un prosieguo più energicamente elettrico, diviene colonna sonora ideale per l'avvento del gigantesco volatile. Il vero e proprio corpo musico/concettuale di "Ever" comincia però a materializzarsi con "Jericho Lie": veniamo condotti alla deriva mentale da un andamento Heavy/Rock, il quale indossa le sembianze di certi Black Sabbath annegati in un oceano di acida psichedelia, che strizza l'occhio a movenze Krautrock tramite l'utilizzo di sintetizzatori che passano dalla liquidità più lisergica a un'impostazione maledettamente retrò.
Se la rosa di Gerico che qui viene raccontata possiede una (illusoria) capacità di "resurrezione", lo stesso non si può dire della tartaruga protagonista di "And To Protect": il placido rettile, infatti, sopravvive alle biologiche avversità del tempo per centinaia di anni, ma finisce con l'essere ucciso dal suo stesso indistruttibile carapace. La sorte incurantemente beffarda del povero animale viene evocata da un velo di delicata e trasognata malinconia che si tinge di colori scuri per via di un più marcato influsso Doom, il quale si fonde perfettamente con le derive più spaziali degli Hawkwind. Con "Tardigrad" veniamo investiti da caliginosi toni liquido/cosmici in cui, di nuovo, la vocazione di elementi elettronici tipicamente settantiani intorpidisce i sensi; l'apparente invulnerabilità dei microrganismi invertebrati che offrono il titolo alla traccia (i tardigradi, appunto, che parebbero essere in grado di sopravvivere nelle condizioni più avverse ed estreme) viene dunque celebrata evocando una misteriosa e inibente atmosfera piacevolmente rilassata.
"Ever" viene formalmente chiuso da "Space Is The Place" che riprende tutti i connotati sopracitati e assume la forma di un costrutto estremamente lisergico e dannatamente ligio al dichiarato intento di sviluppare "l'infinità come dimensione del cosmo": all'interno di un ciclo di riproposizione senza fine di altri cicli di risonanza, riverbera eternamente la più pura esemplificazione dell'elementare componente ripetitiva dell'esistenza. A portare a termine in modo effettivo il disco sono però tre tracce fantasma, le quali potrebbero essere semplicisticamente immaginate come una deviata trasposizione in chiave psichedelica del passaggio di una compagnia circense vagante tra le galassie.
Vi sarà stato facile comprendere quanto "Ever" sia un'opera ancorata solidamente a un approccio artistico (sia strettamente musicale che lirico/concettuale) che si porta appresso una valenza simbolica di non poco conto. Ciò che mi sento soltanto di aggiungere è che "Ever" è un primo lavoro davvero stupefacente e di grande valore: non lasciatevelo sfuggire e tenete molto bene d'occhio lo ZiZ... tanto si sa, prima o dopo rinascerà sempre!
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Gruppo: Deathrow
Titolo: Through A Cold, Endless Winter - 7 Years Of Torment
Anno: 2012
Provenienza: Livorno, Italia
Etichetta: Lo-Fi Creatures
Contatti: facebook.com/deathrowblackmetal - myspace.com/deathrowblackmetal
Autore: Insanity
Tracklist
1. My Cold World
2. Neverending Rain
3. Rivers Of Foreshadowing Demise
4. Deceit
5. Words Untold II
6. A Dying Tyrant
7. Forged In White Renaissance
8. Beholding Evil
9. The Claws Of Time [cover Darkthrone]
10. Watain [cover Von]
11. Nigredo
12. The Sentinel
DURATA: 01:06:03
Deathrow è il progetto solista di Thorns, al secolo Gionata Potenti; chi tiene d'occhio un minimo l'ambiente Black Metal avrà già sentito più volte questo nome, per chi invece non lo conoscesse potrei citare gruppi di cui fa o ha fatto parte quali Frostmoon Eclipse, 11 As In Adversaries, Macabre Omen, Tumulus Anmatus e molti altri. La nostrana Lo-Fi Creatures ci porta all'attenzione questa one man band con una compilation di brani inediti e non registrati nel corso degli anni intitolata "Through a Cold, Endless Winter - 7 Years Of Torment".
La differenza tra i pezzi più datati e quelli più recenti rende possibile notare l'evoluzione sviluppata nel corso degli anni: da un lato troviamo un'evidente devozione al passato di tracce quali la lenta e malvagia "Beholding Evil", le più dirette e dinamiche, a tratti quasi Punk nelle ritmiche, "Forged In White Renaissance" e "The Sentinel", o delle due cover presenti nel disco ("The Claws Of Time" dei Darkthrone, molto simile all'originale, e "Watain" dei Von); dall'altro abbiamo un sound più pulito e studiato che prende forma nel trittico iniziale e in "Words Untold II". È proprio in questi brani che Thorns da il meglio, sfruttando tempi in genere lenti (con l'eccezione di "Neverending Rain") — che riecheggiano vagamente certo Doom Metal malinconico e atmosferico — e una chitarra solista che appare spesso e che insieme a un basso ben sfruttato regala momenti d'oro ("My Cold World" è un perfetto esempio di ciò).
Per non farci mancare niente, Deathrow ci propone anche la sua idea di Ambient che non si limita ai due intermezzi (molto bello "A Dying Tyrant", interamente in organo), ma anzi trova uno spazio non indifferente negli undici minuti della fredda e grigia "Nigredo"; il pezzo è tratto dallo split con Moloch ( "Abgrund Meines Wesens" - "Der Schein Des Schwarzesten Schnees" ), progetto di cui vi ho parlato non molte settimane fa, e si adatta alla perfezione alla proposta dell'ucraino. Anche la produzione varia, se la parte più nostalgica del Black Metal dei bei tempi ha un suono più grezzo e sporco ("The Sentinel", inedita e con una performance vocale degna di nota, raggiunge il culmine sotto questo aspetto), in quella più moderna è possibile notare una maggiore cura e pulizia.
Se lo scopo delle compilation è quello di far conoscere diversi aspetti di una band, con questo disco posso dire che l'obiettivo è stato raggiunto, anche grazie all'eccellente presentazione stampata sul digipak. Per chi fosse interessato a conoscere Deathrow, questo è un ottimo biglietto da visita: starà poi a voi capire quali lavori possano essere di vostro interesse. L'album può risultare interessante anche per chi già apprezza il progetto, in quanto sono presenti ben sei inediti e molti dei brani pubblicati sono rarità.
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Gruppo: Joel Grind
Titolo: The Yellowgoat Sessions
Anno: 2013
Provenienza: Stati Uniti
Etichetta: Autoprodotto
Contatti: joelgrind.com
Autore: ticino1
Tracklist
1. Ascension
2. Hell's Master Of Hell
3. Vengeance Spell
4. Foul Spirit Within
5. Cross Damnation
6. Grave Encounters
7. Black Order
8. The Eternal One
9. Hail To Cruelty
10. Descension
DURATA: 24:59
Chi non conosce i Toxic Holocaust? Lo so, iniziare una discussione sul podio con una domanda è il trucco più vecchio del Mondo. Penso però che mi perdonerete... si tratta infatti di una domanda quasi retorica. Giusto, Joel Grind ha saputo presentarsi sovente con quel suo gruppo, tanto da diventare quasi un cliente abituale in molti lettori casalinghi.
Dall'anno passato conduce pure un progetto solista col suo nome che ha all'attivo due singoli e un full. Quest'ultimo, apparso inizialmente solo su Bandcamp, è ora disponibile anche in versione fisica, vinile e cassetta, entrambe strettamente limitate. Tanta dedizione non può passare inosservata e dunque pure la redazione di Aristocrazia si è incuriosita (mento, IO mi sono incuriosito).
Perché pubblicare un lavoro sotto un altro nome? Magari Joel ha giudicato le canzoni come poco adatte al programma del suo progetto principale. Conosciamo Joel Grind come fautore della filosofia "fatelo da voi" legata al Punk Rock e dunque non sorprende la sua scelta di sfruttare i media attuali per divulgare la sua musica.
Sono sempre stato restio nell'accettare il punto di vista di molti critici che mettevano nella stessa pentola i Toxic Holocaust con tanti gruppi Black Thrash. "Hell's Master Of Hell" sembrerebbe segnare un punto a loro favore, ma presto ci si rende conto che l'immagine è sì molto nera, l'offerta invece resta un Thrash grezzo classico che lega benissimo con gruppi come i Whiplash della prima ora. Non temete: chi si trova bene solo con porcheria macchiata di nero apprezzerà comunque questo lavoretto. La musica di Joel Grind attinge ampiamente dai classici che hanno anche influenzato il Black.
Spero di non creare una contraddizione affermando che, soggettivamente, questo disco sia molto più oscuro e meno Punk dei precedenti, grazie soprattutto a un riffing davvero frizzante. La voce è cruda, concisa e non lascia spazio a interpretazioni. Alcuni effetti e campionature sparsi qui e là arrotondano l'impatto generale. Qualcosa non mi quadra comunque. Mi manca la punzecchiatura che mi lasci esclamare "ah ecco!" per convincermi completamente. Nel momento in cui il disco è storia per le mie orecchie, mi trovo con l'acquolina in bocca senza essere sazio, anzi mi sento come se avessi odorato l'aperitivo per trovarmi poi davanti un buttafuori grande come un armadio che mi sbarra l'accesso al salone del banchetto. Mi dispiace, ma — nonostante il collo mi dolga per il grande scuotimento di capo — non sono in grado di descrivervi concretamente che cosa mi disturbi.
Tanti sono i punti a favore di "The Yellowgoat Sessions" e dunque non mi resta che dirvi: andate, ascoltate e comprate (se vi dovesse piacere).
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Gruppo: Death Rides A Horse
Titolo: Tree Of Woe
Anno: 2013
Provenienza: Danimarca
Etichetta: Infernö Records
Contatti: facebook.com/pages/Death-Rides-a-Horse/434141543331677
Autore: Mourning
Tracklist
1. For Those About To Die
2. (A Unified Vision Of A Transgalactic Empire) Open The Gates
3. Tree Of Woe
4. Beyond The Granite Threshold
5. Pantokrator
6. The Eye
7. Fly To The Rainbow [cover Scorpions]
8. Dominion Of Metal
DURATA: 58:32
I danesi Death Rides A Horse sono una band veramente interessante e infatti l'occhio attento di Fabien "Fab" Pinneteau, titolare dell'etichetta francese Infernö Records e amante delle belle voci femminili, li aveva già presi in considerazione nel 2012. Ricordo parecchi post su Facebook nei quali supportava la formazione ed esprimeva il desiderio di collaborarvi, beh, questo matrimonio artistico è avvenuto.
La ristampa di "Tree Of Woe", il secondo ep rilasciato dal quartetto l'anno scorso, in versione ampliata con il primo mini "Pantokrator" e la traccia inedita "Dominion Of Metal" a rendere più appetitoso il piatto servito, è un'operazione indovinata quanto gradita ai tanti che — come il sottoscritto — speravano di poterne acquisire una copia. L'incontro heavy/doom dalle reminiscenze stoner proposto gode di un più che discreto sviluppo nel songwriting e soprattutto di una carica emotiva passionale che rende i Death Rides A Horse particolarmente distanti dalle scelte "standardizzate" che sembra stiano diventando un peso gravoso nei confronti di una scena incentrata da sempre sulla qualità del prodotto più che sulla quantità dei lavori pubblicati. In questo specifico caso il gruppo è paragonabile a un incrocio che vede quali partecipanti Ronnie James Dio, Black Sabbath, Chastain, Candlemass e The Sword e che viene fornito di una produzione sporca quanto basta a supportare l'atmosfera scura.
In questa ambientazione che per tanti, per non dire tutti, versi ha un cuore che batte per gli anni Ottanta fa breccia come un coltello nel burro Ida (voce e basso) con la sua ugola pulita ed espressiva. La cantante fa affiorare un pizzico di personalità in una serie di brani che possiedono molto di conosciuto, evitando forzature e "digrignamenti" inutili, è tutto gradevolissimo. Non mi dilungherò in un "track by track" che ritengo inutile, i pezzi si assimilano facilmente e il bello è proprio quello: ricevere all'orecchio in maniera semplice ed efficace canzoni che fanno venir voglia di essere riascoltate svariate volte, con il gruppo che se la cava dignitosamente anche quando è chiamato a confrontarsi con episodi come la storica "Fly To The Rainbow", titletrack del secondo disco degli Scorpions, e la nuova, ma alquanto celebrativa, "Dominion Of Metal", traccia che i danesi dedicano agli Accept, accreditandoli quali ispiratori in fase di creazione e che insomma è valutabile al pari di un vero e proprio omaggio rivolto ai tedeschi.
Se nel recente passato avete avuto modo di apprezzare la musica dei Death Rides A Horse, tuttavia non siete riusciti a procurarvi nulla, questa speciale ristampa di "Tree Of Woe" diviene motivo valido d'acquisto; se invece non vi fosse stata ancora presentazione ufficiale fra le parti, quale occasione migliore per farlo se non questa? Pensateci.
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Gruppo: Anima Sementis
Titolo: Interitum
Anno: 2013
Provenienza: Germania
Etichetta: Autoprodotto
Contatti: Myspace - Sito - Facebook
Autore: Akh.
Tracklist
1. World Dominion Collapse
2. Ruins
3. Masquerade Of Grace
DURATA: 15:24
Dopo ben cinque anni dal debutto, ecco tornare sulle scene i teutonici Anima Sementis con questo Ep "Interitum", che la band mette in libero ascolto tramite Youtube. Confrontandolo con "Sermon Of Lies" (che trovate nel lettore Myspace), questo prodotto spinge maggiormente sul versante Death Metal, rispetto al Black Sinfonico primigenio, acquisendo brutalità e dinamismo. La copertina ben rappresenta il quarto d'ora che vi troverete fra le mani.
La tendenza apocalittica delle tastiere e il retaggio musicale di stampo "egizio" di una parte del riffing fanno emozionare (devo rendere merito al gruppo di essere un'ottima sorpresa in tal senso), mentre viene mitigato l'apporto di certe aperture melodiche, per quanto rimangano presenti nella scrittura e nella struttura dei vari brani, bilanciando quindi le varie soluzioni e permettendo così al gruppo di acquisire quel quid in più.
Va segnalato inoltre che per quanto si abbia a che fare con un'opera autoprodotta, tutto sia altamente professionale: dalla copertina alla produzione, che favorisce l'interpretazione, fino alle abilità tecniche del gruppo di Erlangen (Baviera). Si sente che hanno rodato i loro strumenti sui palchi di tutta la Germania, assieme a band dall'indubbio spessore artistico, sede in cui sicuramente gli Anima Sementis sanno più che farsi valere, come dimostrano ampiamente i video sulle loro pagine.
Tornando alla valutazione di questo mini, posso tranquillamente affermare che ci sono tutte le componenti per vedere crescere ulteriormente il suono di questa formazione, l'ampliamento atmosferico a favore di una violenza misterica e l'utilizzo di certe soluzioni oscure e arrangiamenti ricchi (accompagnati da stacchi e pennate ritmiche coinvolgenti) fanno sì che questo nome possa essere una rivelazione nel proprio specifico settore e non.
Canzoni come "World Dominion Collapse" fanno godere per l'incipit imponente, severo e monolitico in cui si può percepire nitidamente il potenziale degli A.S., che vorrei fosse supportato da una etichetta all'altezza della situazione. A volte ascoltando i ragazzi mi è tornato in mente quel grandissimo lavoro che è "Elvenefris" dei mai troppo celebrati Lykathea Aflame per la capacità di dosare sfuriate furibonde (senza però mai sfociare in tonalità prettamente Brutal Death) e tratti maggiormente melodici, come ci illustra ampiamente la conclusione di "Ruins" con la sua celebrazione ad Amon Ra. L'importanza di tutto ciò si evidenzia ancora in "Masquerade Of Grace", dove i solo e i tappeti di tastiera impreziosiscono l'atmosfera rendendola quasi teatrale, per poi venire squarciata dal puro impatto dei blastbeat; grazie alla consapevolezza dei propri mezzi queste divengono armi ferali, simbolo di una vitalità foriera di grandezze e magniloquenza tetra e trionfale.
L'ombra delle due terre è tornata, l'oro millenario dei faraoni è niente a confronto della loro indissolubile e maestosa aura, gli Anima Sementis si legano a tutto ciò e ne rappresentano l'inconfondibile e indeclinabile destino.
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Autore: ticino1
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A dicembre 2012 abbiamo parlato un attimo con S., mente degli Hatesworn e instancabile musicista attivo in diversi progetti svizzeri. Vi ricordo che io recensii i suoi lavori e che il CD discusso qui è "Trascend Moral Limitations".
Tutto bene da te? Iniziamo subito con questa corta intervista. Come sono state le reazioni del pubblico e della cosiddetta stampa specializzata all'uscita del CD? In che direzione si muovono ora gli Hatesworn?
Sono rimasto sorpreso, perché le reazioni sono state più positive del previsto. È un disco molto personale e di conseguenza non m'immaginavo che l'accesso fosse semplice per qualcun altro. A quanto pare però la mia idea si spinge con irruenza verso l'ascoltatore. Le due o tre recensioni della "stampa specializzata" sono state positive, anche se mi è parso che alcuni non avessero proprio capito che cosa io volessi trasmettere con le canzoni. Infine non fa nulla, poiché la mia musica è composta per me stesso. Soprattutto il progetto Hatesworn è — come già detto prima — molto personale e non cambierebbe, indipendentemente da ogni tipo di critica. Nei prossimi giorni dovrebbe uscire una cassetta split con gli ungheresi Woodspirit che contiene una canzone per gruppo. Quella degli Hatesworn si muove sulla linea del nuovo materiale già pubblicato. Ho per esempio rinunciato completamente all'impiego di una batteria e le parti vocali sono del nuovo cantante N. Il primo album uscirà pure esso sotto forma di cassetta limitata nel corso del 2013 con questa traccia come bonus e stiamo ora curando l'aspetto di una maglietta che sarà stampata in occasione della pubblicazione. Ora lavoro già al prossimo disco. Tematicamente e a livello musicale non segue proprio il pensiero originario da cui nacque Hatesworn e dunque non sono ancora sicuro se apparirà, se sotto questo nome oppure un altro o se addirittura cambierò il nome del gruppo. Prima di iniziare a pensarci su, voglio terminare le incisioni. Tutti gli strumenti sono già stati incisi e ci occupiamo delle sequenze vocali di N. Lo stile va in una direzione molto sacrale. Lavoriamo con cori, molti sample e con un batterista in carne ed ossa. Ora non voglio ancora rivelare troppi dettagli. Non posso ancora dire molto riguardo altri piani futuri. Magari un giorno mi verrà nuovamente l'ispirazione per comporre qualcosa di molto simile alle canzoni sull'album. Dubito però che io possa mai produrre qualcosa d'identico; il tutto dipende sempre dal momento e dalla situazione, altrimenti sarebbe pure noioso.
Che mole di lavoro comporta oggigiorno la produzione di un CD/LP?
Dipende sempre da che cosa si vuole. Per questo CD ho suonato io tutti gli strumenti e dunque una ripresa live non è possibile. Le canzoni sono nate in maniera molto spontanea che, al contrario dei miei altri progetti, non è stata preceduta da un lavoro compositivo. Ho lasciato che i miei sentimenti sfociassero direttamente negli strumenti. Non ho preparato nessuna canzone, ma sono stato in sala prova per undici sere, generando un pezzo per serata. Chiaro, dopo ci sono anche stati dettagli come la voce femminile oppure i due assoli di chitarra da inserire, il missaggio e il mastering che ho affidato ad altri. Ho lavorato qui e là al progetto di copertina nell'arco di sei mesi circa. Penso che in questo modo io abbia potuto avanzare rapidamente. Con Wacht, per esempio, siamo in studio e registriamo i pezzi scritti due anni fa per il nuovo lavoro. Li ho rifiniti durante gli ultimi sei mesi col nuovo batterista. Anche il prossimo disco degli Hatesworn mi è già costato all'incirca un anno di lavoro. Non sempre riesce tutto in fretta. Dipende naturalmente anche dal tempo che si ha a disposizione e dallo stato d'animo che si ha in rapporto alla canzone in cantiere. È comunque un processo molto impegnativo che non si risolve in quattro e quattr'otto. Ci vogliono tanto tempo, tanta pazienza e volontà.
Dicci qualcosa riguardo l'evoluzione verso l'Ambient.
Non ascolto Ambient o simili e penso, dunque, che ciò sia avvenuto in maniera inconscia. Personalmente non lo definirei davvero Ambient. Mi è anche stato detto che vada in direzione dello Shoegaze Black Metal. Ho dovuto innanzitutto cercare su Google per comprendere che cosa fosse, ma il tutto non mi fu d'aiuto, poiché non ascolto nessuno di quei gruppi e neppure mi piacciono. Volevo catturare una certa atmosfera e, già che ciò era possibile con gli strumenti utilizzati, ho registrato il tutto così com'era. Ho evitato di fissare dei limiti per le canzoni. In particolare le linee di voce femminile di L.W. hanno provocato tanto scuotere di capo, ma io mi immaginavo il risultato esattamente così e ne sono totalmente soddisfatto. Anche se dovessi riprendere il tutto, non cambierei nulla.
La maggior parte degli stili metallici estremi finisce uno dopo l'altro nelle grinfie delle etichette più grandi. Che cosa pensi di questa evoluzione?
Ognuno è libero di decidere se firmare presso una grande casa o se preferisce piuttosto restare nel sottosuolo. Personalmente preferisco mantenere il controllo e faccio tutto da solo. A volte è molto pratico poter sfruttare i vantaggi di un'etichetta. Io, per esempio, non ho nessun interesse ad occuparmi della distribuzione. Sulla scala in cui ci muoviamo, la maggior parte delle etichette prende il tuo prodotto in gamma solo su scambio. Ciò significa che mi trovo con un mucchio di roba che non m'interessa e che non mi aiuta a pagare una fattura (costi di stampa, missaggio o mastering). Non voglio dunque neppure aprire un negozio online. Il tutto non è poi così grave, se ci si può poi concentrare sulla musica. Tutta quella "Nuclear-Blastizzazione" è naturalmente inutile. Il Black Metal ha il suo posto nel sottosuolo e basta. Quelle formazioni che tentano di piazzarsi sul mercato con l'idea di divenire i prossimi mostri in classifica, adattando la loro immagine e la musica, si possono cestinare tranquillamente. Solitamente non ne esce comunque nulla di buono. Il black è stato comunque commercializzato con successo. Burzum e compagni vendono masse di dischi e le etichette, come appunto la NB, offrono scudi vichinghi di plastica e castelli giocattolo per i nostri tanto ribelli giovani idioti pubertari. Non parliamo poi di un open air come il Wacken, che, nonostante tutto, non offre ancora tanto spazio per il black. Rispondo concretamente alla domanda: trovo il tutto inutile e sono dell'opinione che tutto ciò di cui il Black viveva è andato così perso.
Mentre io sono poco attivo, tu possiedi una vasta rete di contatti. Non è un poco in contraddizione con la filosofia Black?
Perché dovrebbe? Comunico con la gente che ha la stessa visione o obiettivi. Secondo me non si tratta di una vasta rete; per me conta la qualità, non la quantità dei conoscenti e amici. Secondo me una rete di conoscenze è composta di tanti contatti superficiali da cui si possono anche trarre vantaggi personali e già questo mi dà fastidio personalmente. È un fatto che oggi è possibile comunicare in modo molto efficiente tramite Internet. È perciò anche più semplice entrare in contatto con la gente, anche se non si può incontrarla personalmente durante un lungo periodo. Bisogna dire che da questo lato sono comunque ben organizzato. Comprendo comunque ciò che vuoi dire. Credo che ciò che facciamo e come ci muoviamo nella società siano caratterizzati da una sorta di odio/amore. Infine ognuno può decidere liberamente di evitare contatti sociali. Dal canto mio sono troppo nervoso e attivo per potere essere soddisfatto da una vita isolata in campagna.
Come giudichi la tua evoluzione tecnica e musicale degli ultimi due anni?
Ecco, suono ancora in modo piuttosto sporco e senza tecnica o istruzione e non so neppure leggere le note [ride]. Le mie scale sono diventate un poco più complesse, le canzoni più lunghe e secondo me più varie. Un campo in cui ho imparato davvero molto di più è quello delle tecniche d'incisione e del gioco fra chitarra e basso. In passato c'erano due linee di chitarra identiche seguite a ruota dal basso. Sui primi demo dei Wacht ho addirittura rinunciato al basso. Imparo mentre lavoro. Ogni volta che proviamo per un concerto, indipendentemente di che gruppo, noto quanto giovi suonare ed esercitarsi regolarmente. A parte i momenti in cui compongo o incido, non suono quasi mai la chitarra, perché non ne ho il tempo. Ascoltando le registrazioni pongo più attenzione sulla qualità dell'esecuzione e se qualcosa stoni o no. Mi prendo anche più tempo in generale, invece di terminare il tutto il più rapidamente possibile. Lascio riposare di proposito le canzoni per un po', per poi decidere se mi piacciono ancora così come sono oppure se voglio elaborare qualche altro dettaglio.
Dove si può vedere Hatesworn in concerto?
Da nessuna parte. Non credo che questo tipo di musica sia adatto a presentarsi in un concerto completo. Canzoni scelte sarebbero fattibili. Magari ne suoneremo una durante una scaletta dei Wacht. Un concerto intero con questi pezzi sarebbe per me probabilmente impegnativo dal lato psichico.
Quanta malinconia sopporta un essere umano? Che cosa t'ispira a scrivere quei testi distruttivi?
Penso parecchia, vedremo. L'album degli Hatesworn è suddiviso in cinque capitoli. Il primo contiene le prime tre canzoni del terzo demo, il secondo le ultime tre del precedente e così via; le ultime due rappresentano il quarto capitolo. Il capitolo cinque contiene la canzone delle split con i Woodspirit. Questa è in teoria anche parte integrante del lavoro e apparirà dunque anche sulla cassetta. Ogni paragrafo ha di base un'altra vena e soggetto. Nel primo capitolo si parla d'isolamento e apatia, nel secondo della morte e nel terzo di puro odio verso tutto e tutti. Ciò è dovuto al fatto che ho registrato le tracce durante diverse fasi della mia vita in cui questi sentimenti hanno giocato un ruolo importante. È l'immagine della mia visione in quei momenti, della mia situazione sentimentale, rispettivamente di ciò che mi preoccupò allora. Il quarto capitolo è un ponte fra questo caos sentimentale perfettamente umano verso una nuova coscienza o semplicemente una cognizione superiore. Da qui è nato il titolo "Golden Gate". Nel quinto capitolo mi sono poi totalmente staccato dalla negatività dei primi tre, portandomi su un livello più spirituale. Questo concetto voglio seguirlo anche sul prossimo disco. Così si spiega anche il lungo titolo che comprende tutte queste stazioni: "Transcend Moral Limitations To Evoke Pure Negativity Until All Is Dead".
Ogni tanto sento ragazzi discutere, affermando di volere morire, la vita sarebbe troppo stressante...
Fate pure. Nessuno è indispensabile e oltretutto parlarne e lamentarsene non migliora comunque la situazione.
Abbiamo già finito. Ti snerverei di più, ma non so più che chiedere... ti lascio l'ultima parola, dopo averti ringraziato per la tua disponibilità.
Lo stesso dell'ultima volta: ci si vede!
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