Informazioni
Festival: Brutal Assault 2013
Data: 07/08/2013 - 10/08/2013
Luogo: Fort Josefov, Jaromer, Repubblica Ceca
Autore: Istrice
Day One - Il Viaggio Della Speranza (mercoledì 7 agosto 2013)
Premessa: il nostro verso il Brutal Assault non è stato un viaggio, è stata un'Odissea. La decisione di visitare Berlino e Dresda in sequenza nei giorni che precedevano il festival, e soprattutto le decine di ore passate in coda, a quaranta gradi, senza aria condizionata, sulle autostrade tedesche, totalmente imbottigliate a causa di rotture del cemento dovute al caldo eccezionale registrato quest'estate nella germania centro-settentrionale e a una grottesca sequenza di incidenti che hanno minato il nostro cammino (come se tutti i tedeschi avessero deciso di schiantarsi nei giorni dei nostri spostamenti), ci porta in dono la totale distruzione fisica e psicologica ancor prima dell'inizio dei concerti, già di loro impegnativi. Arriviamo nella ridente Jaromer sotto un sole di fuoco nel primo pomeriggio, ancora una volta il viaggio è durato tre ore in più del previsto, causa blocco lungo una delle principali arterie della rete autostradale ceca, e ci appropinquiamo, memori del calvario dell'anno passato, alla trafila d'ingresso. Con nostra somma sorpresa però scopriamo che gli annunci propagandistici degli ultimi mesi, in cui gli organizzatori assicuravano una maggiore efficienza, erano stati ben motivati, difatti in meno di dieci minuti otteniamo i nostri braccialetti e in un'oretta siamo già in zona campeggio con le tende montate. Un enorme complimento agli organizzatori per lo step in avanti compiuto quest'anno.
Dopo esserci rosolati attendendo che il sole lasciasse strada alla sera, ci dirigiamo per la prima volta verso l'area concerti. Pochi i cambiamenti dall'anno precedente: stessi stand, stesso cibo (sempre più che discreto per un festival metal), stessa carenza di bancarelle di merchandising, molte distro locali con poco o nulla di interessante e prezzi esorbitanti per i pochi oggetti meritevoli. Riforniti di cibo, ci spostiamo nella sempre comoda zona rialzata, da cui si dominano entrambi i palchi e ci si può sedere in tutta tranquillità a mangiare un boccone senza perdersi necessariamente le esibizioni in corso. E dire che forse sarebbe stato meglio il contrario in questo caso: i Malignant Tumour, band locale capitanata da una sorta di Lemmy dei poveri, propongono un orripilante incrocio fra thrash, rock 'n' roll e crust decisamente lontano dai nostri gusti; ma anche decisamente lontando dal buon gusto in senso lato.
Arriva il momento degli headliner del pre-fest, ovvero i sempreverdi Testament. Capitanati da un Chuck Billy sempre più pachidermico nelle sue forme, i thrasher propongono una scaletta fortemente incentrata sui lavori più recenti, senza far però mancare al pubblico qualche pezzo storico ("Burnt Offerings", "Into The Pit" e l'apprezzatissima "The New Order"). Sebbene non siano decisamente cosa mia e il vecchio Billy non riesca più a tenere botta per l'intero concerto (e vorrei vedere, con quel che ha passato), devo dire che nel complesso lo spettacolo si rivela assolutamente godibile. Billy, Skolnick e soci salutano il pubblico, e noi pure.
Day Two - Bambini Selvaggi (giovedì 8 agosto 2013)
Giovedì mattina si apre fra le bestemmie del campeggio contro i nostri vicini di tenda, che pensano bene di svegliare tutti alle sei e mezza mettendo a cannone nello stereo un pezzo bielorusso la cui tamarraggine non conosce confini; tanto che andremo a domandare cosa fosse per poterne godere anche noi nuovamente, precisamente "Otdihaem Horosho" di tale Syava, per chi volesse tentare la sorte. Attendiamo il mezzodì per recarci in zona concerti, il tempo di vedere sul palco i Decrepit Birth e di mangiare un boccone, in attesa che arrivino le due e mezza, orario in cui, sotto una canicola feroce, si esibiscono i Novembers Doom. Nonostante il clima sia il meno adatto possibile per godere della proposta degli americani, l'esibizione è di tale livello da lasciare gli astanti senza fiato, fra cavalcate death e bordate doom, sempre accompagnate dalle strofe ora in growl ora in pulito di Paul Kuhr, che dimostra di essere un frontman dotato di grande carisma. Con la finale "Rain", i nostri sottolineano i cambiamenti climatici previsti per il giorno successivo, "i Novembers Doom portano la pioggia", e così sarà veramente.
Approfittiamo del vuoto pomeridiano per farci una doccia ristoratrice e torniamo a distruggerci i timpani con i Dying Fetus. Il rapporto fra il numero di strumenti e il casino che il trio riesce a erigere sul palco lascia sempre ammutoliti, la band del Maryland snocciola brutallo di qualità come se nulla fosse, travolgendo gli ascoltatori coi loro feroci cambi di ritmo. Prestazione maiuscola.
Balzati a piè pari gli inutili Ensiferum, ci aggiriamo disinteressati vicino al palco su cui a breve si esibiranno i Gojira, che si riveleranno (per noi) inattesi vincitori della prima giornata. Sto ancora convenendo con Bosj circa il fatto che i Gojira siano "bravissimi per carità, ma non so dal vivo quanto possano rendere, potrebbero essere noiosi", quando i francesi attaccano a suonare. Signore e signori, le mazzate. Il quartetto si rivela una macchina da guerra, suoni cristallini e potenti, il groove ti entra nel sangue e in men che non si dica ti trovi catapultato nel pit a dimenarti come uno scemo sui riff penetranti di Duplantier. Con una spettacolare "Backbone" e una devastante "L'Enfant Sauvage" (traccia che dà il titolo al neonato album) i transalpini trascinano la folla, a mio avviso la più vasta dopo quella presente ai Behemoth l'ultimo giorno, un vero plebiscito, meritatissimo peraltro; applausi per loro, mal di collo per noi. "The Haviest Matter Of The Universe" tiene fede al titolo, privandoci delle ultime energie, mentre il finale dilatato di "The Gift Of Guilt" diventa il congedo del quartetto dal suo pubblico, dopo aver dimostrato come una band tutto sommato giovane come loro possa a pieno merito riservarsi uno spazio da headliner in un importante festival europeo, lasciandosi dietro gruppi con molta più storia sulle spalle. Gruppi come quello che seguirà ad esempio, e di cui tuttavia non ci frega un benemerito, ragion per cui sfruttiamo il concerto degli Anthrax per andare a cibarci.
Da qui in poi la serata sarà una sequenza di fallimenti musicali: a partire dagli irriconoscibili Fear Factory guidati dal patetico Burton Bell che si presenta ubriaco sul palco e non azzecca una nota che sia una (non che da sobrio sappia fare di meglio in realtà), che fanno venire le lacrime agli occhi a Bosj, fan dai tempi che furono; passando per gli Entombed, con pessimi suoni, pessima prestazione, pessima scaletta; finendo con i Voivod e il loro thrash prog-wannabe. Intristiti da un finale di serata decisamente sottotono, rientriamo al campo base, nessuno ha voglia di aspettare le due del mattino per vedere i Marduk, peraltro già incrociati altre volte nei festival degli anni precedenti.
Day Three - "Bleed, It Says, Bleed You Will" (venerdì 9 agosto 2013)
Venerdì si preannuncia come una giornata decisamente più ricca e interessante, e sarà in effetti foriera di bei momenti (e di qualche prevedibile oscenità). Ci rechiamo ai palchi per puro patriottismo fin dall'inizio, per assistere alla solida prestazione dei nostri Antropofagus, convincenti sebbene mutilati nei suoni da un soundcheck superficiale; problema purtroppo comune a tutte le band di inizio giornata. La prima metà del giorno sarà ondivaga: qualcuno si ferma per i sempre solidi Obscura, formazione giovane, ma già matura per fare il salto di qualità; qualcuno per i blackster francesi Glorior Belli, qualcuno per gli Hypnos, band death metal padrona di casa. Ci si ritrova tutti per gli Hate, gruppo polacco oggi erroneamente additato come "copia" dei Behemoth, nonostante a onor del vero gli stessi Hate proponessero quel death metal veloce e vagamente black da prima che Nergal e soci svoltassero verso una proposta simile. Fieri nella loro rivendicazione di originalità, nonostante la somiglianza nel look e in generale nel simbolismo esoterico con i cugini più famosi sia a tratti imbarazzante, il quartetto si mostra in buona forma e macina death metal di buonissima fattura, tanto da spingere alcuni di noi, meno preparati in materia, a riapprofondire l'argomento una volta rientrati in terra italica.
L'entrata in scena degli Orphaned Land coincide con l'entrata in scena delle nuvole. Il cielo si fa nero e l'atmosfera mediorientale non basta a trattenere le persone sotto il palco quando si scatena il nubifragio. Il gruppo israeliano è stoico e prosegue nella sua esibizione, sebbene sotto il palco rimangano pochi fan imperterriti; noi, meno stoici, riusciamo a seguirne alcuni spezzoni dai tendoni e torniamo per il finale quando il cielo sembra voler lasciare tregua al festival.
Se il clima meteo non cambia per l'intera giornata, cambia quello musicale nel momento in cui iniziano i Malevolent Creation. Il quintetto da Buffalo pesca a destra e a manca dalla sua infinita produzione musicale, snocciolando violenza per tre quarti d'ora. Compatti e convincenti. Ennesimo scarto cromatico e arriviamo ad Alcest, decisamente più in forma rispetto all'anno passato, e poi ai Fields Of The Nephilim, per Pist uno degli eventi più sentiti dell'intero evento. Il gothic rock-metal dei britannici male si sposa con l'intero festival e nel complesso il concerto appare poco trascinante. E poi arrivano i maestri.
Guadagnamo terreno verso il palco, Bosj è poco convinto, a lui queste cose dispari non piacciono. Sobri come sempre, i Meshuggah attaccano con "Swarm", pezzo di riscaldamento per settare al meglio i suoni. Da inesistenti le chitarre diventano due macigni, e quando Haake stacca il tempo di "Combustion" l'intero Brutal collassa sotto le distorsioni degli svedesi. Messo da parte il "fanboysmo", Bosj può tranquillamente confermare che gli 'Shuggah sono veramente "andati enormi", spiegando musica al resto dell'umanità. "Demiurge" è monumentale e "Bleed", col suo incedere maestoso e disumano, scatena un pogo selvaggio. Alla mia sinistra Bosj non riesce a star fermo, travolto dallo spessore musicale dell'armata di Umea. Spettacolare la chiusura affidata all'accoppiata "In Death – Is Life" e "In Death – Is Death", tratta direttamente dal masterpiece "Catch 33", accoppiata che manda in pappa il cervello degli astanti. Colossali, come sempre.
Messa da parte l'esaltazione, è già tempo di resettare il cervello, consci del fatto che dopo uno show del genere nulla potranno fare gli In Flames per non deluderci. Perchè noi agli In Flames s'è voluto bene veramente, s'è voluto bene fino a "Come Clarity", disco troppo -core, ma ancora ben scritto, gli s'è dato il beneficio del dubbio con "A Sense Of Purpose", tuttavia ormai è per puro masochismo che ci fermiamo ad assistere allo scempio che Fridèn e la sua combriccola mettono in atto. Colpevoli di un non giustificato ritardo, e con un atteggiamento da rockstar che poco si addice alla band, il quintetto da il via allo show con l'orrenda "Sounds From A Playground Fading". La scaletta è brutta, però non pessima, un paio di carichi da novanta vengono calati. "The Quiet Place", "System", "The Hive" e "Trigger" farebbero la loro porca figura, non fosse che l'appiattimento musicale della band è ormai totale, il sound s'è addolcito a livelli diabetici e gli stessi pezzi d'annata ne escono distrutti. Lacrime per noi.
Prendiamo fiato con gli Amorphis, la classica formazione senza soprese, solida e coinvolgente, sai precisamente cosa ti offre, niente di più, niente di meno. Non riesco a dilungarmi sul concerto dei finlandesi, perché ciò che li segue sarà nuovamente tanto clamoroso da oscurare ciò che c'è stato nel mezzo. Incazzati come vipere per il ritardo causato dagli In Flames, arrivano sul palco i Carcass. Tra uno sfottò e un non troppo velato insulto agli headliner di serata, i britannici radono al suolo le eventuali macerie lasciate ancora in piedi dai Meshuggah un paio d'ore prima: i volumi alle stelle e una intensità senza precedenti annichiliscono la piazza. Andando a pescare avanti e indietro nella loro produzione, il gruppo tiene la seconda lezione di serata su come dipanare gli ani, in maniera sicuramente diversa dagli insegnanti della lezione di inizio serata, ma con altrettanta chiarezza. Giusto nel caso ci fosse qualche zucca più dura non in grado di comprendere le equazioni ritmiche degli altri, i Carcass vanno dritto per dritto, prendendo a badilate in faccia riff dopo riff l'uditorio. È un vero dispiacere sentirli attaccare "Heartwork", consci del fatto che sarà l'ultimo pezzo in scaletta. Ammutoliti, ma con l'animo in pace per aver visto due esibizioni da manuale, rientriamo nelle tende. Solo il solerte Pist, con cuor di leone, attenderà le tre del mattino per vedere i Cult Of Luna. Congratulazioni a lui.
Day Four - Demoni Della Caduta E Semidei Decaduti (sabato 10 agosto 2013)
La mattina di sabato vede spuntare un pallido sole dopo l'acqua del giorno precedente, l'aria è frizzante e se non altro pioggia e vento si sono portati via la cappa d'umidità che di solito regna sovrana nella bassa cecoslovacca. La giornata stenta a decollare, a pranzo ci fermiamo a guardare un po' di metalcore, giusto per onor di firma: War From A Harlot's Mouth e We Butter The Bread With Butter. Buoni i primi, che con le loro 7-strings dimostrano di saper fare tanto baccano; pessimi i secondi, che al di là del nome simpatico non hanno nessuna particolare ragione d'esistere.
La gente che conta inizia ad apparire sul palco nel mezzo pomeriggio, i primi saranno i Primordial, interessantissimo gruppo proveniente, come hanno avuto modo di sottolineare più e più volte, "dalla Repubblica d'Irlanda". L'intensità emotiva sprigionata dal quintetto ha pochi eguali oggi ed è la vera cifra stilistica della loro proposta. La scaletta è brevissima, ma di grande impatto: "No Grave Deep Enough", "The Coffin Ships", "Bloodied Yet Unbowed" e la solita clamorosa "Empire Falls". Per l'ennesima volta ci emozioniamo, per l'ennesima volta ci ripromettiamo di cercare un evento in cui possano avere più tempo a disposizione, per l'ennesima volta restiamo meravigliati e ammirati dalla capacità di tenere il palco della band e di Nemtheanga di utilizzare le proprie corde vocali. Peccato abbiano sempre posizioni stronze alle tre del pomeriggio.
Saltati i Vomitory per problemi con i trasporti (recupereranno la notte), attendiamo l'arrivo dei Leprous, formazione norvegese che supporta Ihsahn negli eventi live e che per l'occasione si ritaglia trenta minuti sul palco prima dell'ingresso in scena del carismatico personaggio che al secolo fa Vegard Sverre Tveitan. Il rock progressivo dei "Lebbrosi" male calza al Brutal Assault, la gente segue poco interessata l'evento, nonostante la proposta sia fuor di dubbio pregevole, fino all'entrata in scena dell'atteso protagonista del pomeriggio. Nonostante sia passata molta acqua sotto i ponti, e Ihsahn suoni tutt'altra cosa rispetto ai tempi degli Emperor, la schiera di irriducibili è ancora nutritissima. L'ora di musica avant ci riempe a poco a poco le palle, ma resistiamo per quasi l'intero show in adorazione, più per il personaggio che per la musica in sé. Bello e dannato.
Dopo aver sfruttato il vuoto cosmico composto da Trivium e Clawfinger per farci una sacrosanta doccia, ci rechiamo nella zona del palco piccolo per l'inizio dei Solefald. Il duo norvegese, accompagnato da una schiera nutritissima di musicisti, dà fondo a tutta la sua follia, mettendo in piedi siparietti irriverenti, balzando avanti e indietro nella loro variegata carriera musicale, coinvolgendo il pubblico come nessun altro è stato in grado di fare al festival, e in generale regalando una immagine totalmente diversa, ma non per questo meno entusiasmante, di cosa possa essere il metal nel 2013. Mi vedo costretto a citare "Backpack Baba", durante la quale — su esplicita richiesta di Cornelius e Lazare — l'intera folla si scatena in una danza surreale, un momento di ballo anarchico e collettivo che fa crollare l'Obscure Stage. Sicuramente l'ensemble intellettualmente più carismatico dell'intero evento.
Scappiamo dal buggigattolo per arrivare ai palchi principali in tempo per l'inizio dei Behemoth. Folla oceanica per loro, incredibile che fenomeno mediatico siano diventati dalle sfortune di Nergal. Questa volta tuttavia le gesta dei polacchi saranno tutt'altro che memorabili: il leader appare ulteriormente dimagrito e debolissimo di forma, senza voce, in costante difficoltà fisica. I pezzi sono rallentati, molli, senza mordente. "Demigod", brano che adoro, lascia l'amaro in bocca; il ritornello di "Conquer All" viene completamente stravolto nel suo ritmo per dare modo e tempo a Nergal di sopravvivere; "At The Left Hand Of God" viene praticamente cantata con una sorta di pulito da Nergal che non riesce più a growlare. Nemmeno il pezzo inedito proposto convince, e lascia anzi piuttosto perplessi in vista del disco in uscita a fine anno.
Stendiamo il proverbiale velo ed aspettiamo che Akerfeldt ci tiri su d'animo. Il gregge di "troll" travestiti da musicisti si presenta sul palco in tenuta settantiana e attacca un pezzo dall'ultimo disco "Heritage", totalmente "out of context "e prosegue perculando pubblico e band esibitesi nei giorni precedenti. "Non capisco perchè a un festival chiamato Brutal Assault debbano chiamare gli In Flames, ve lo suoniamo noi il brutal", e via con una masturbazione strumentale di dieci minuti. Salvo poi sparare una "Deliverance" al fulmicotone da far rizzare i peli. Segue una assurda e inedita versione di "Demon Of The Fall" totalmente acustica (peraltro meravigliosa nella sua nuova veste), e la "trollata" prosegue con i tecnici del festival, i quali, alla segnalazione del tempo a disposizione in scadenza, si vedono rispondere in maniera beata "tranquilli, solo un pezzo ancora". Un pezzo, ovviamente, da dodici minuti. "Blackwater Park" spazza via tutto ciò che c'è stato prima, e riconcilia la band col pubblico che comunque, va detto, aveva preso con filosofia la commedia chiamata Opeth, ridendosela di gusto per le stravaganze del gruppo. "Il sole cala per sempre su Blackwater Park", e con la netta percezione che con un solo pezzo la formazione di Stoccolma sia stata in grado di raccontare molte più storie di quanto alcune band riescano in una intera carriera, ci inchiniamo di fronte a una delle realtà più eclettiche attualmente in circolazione.
Chiudono la nostra serata i Borknagar, siamo lontani dal palco e non riusciamo a comprendere chi sia il membro mancante, ma francamente siamo interessati il giusto, preoccupati più che altro delle condizioni di un nostro compare che sta vomitando l'anima, non per ubriachezza sia chiaro, ma per una indigestione allucinante e che ovviamente non riusciamo a contattare al telefono. Pezzi come "Genuine Pulse", "Ruins Of The Future" e "Ad Noctum" non ci lasciano comunque indifferenti e fanno da colonna sonora ai nostri tentativi di contattare il ragazzo disperso, che ritroveremo solo in tenda in tarda serata.
Provati dalle fatiche di quattro giorni di musica, ci rintaniamo per recuperare qualche ora di sonno, solo Pist (e chi altrimenti) aspetta che sia notte fonda per i Saturnus, ma ha vita facile (si fa per dire): il giorno dopo lo attende un volo per Indianapolis, all'inseguimento della sua amata; noialtri stronzi invece ce la dovremo guidare fino a casa.
Nota finale: un sentito ringraziamento e un saluto agli altri due membri della spedizione, Mahssimoh a.k.a. Polifemore, che ha fornito il supporto fotografico, e Guglio, che ha riempito il baule della macchina con un bagaglio delle proporzioni di un sarcofago.